Fonti e suggestioni di Alamut

| | |

di Fabrizio Foschini

 

Il termine “assassini” deriva da hashishiya, consumatori di hashish. Eppure, in ambito musulmano, il suo uso riferito agli ismailiti non ha mai implicato una correlazione tra il consumo di droghe e le uccisioni politiche effettuate dalla setta, quanto una denigrazione più generica di questo movimento eterodosso. In Europa, il primo ad adottarlo è Dante, nel XIX canto dell’Inferno, ma l’introduzione del mito si deve a Marco Polo che lo diffonde con già di tutti gli attributi che lo caratterizzeranno per i secoli a venire: il vecchio della montagna che droga i giovani adepti per convincerli di essere in paradiso e di godere dei favori delle Huri, in realtà abili cortigiane alloggiate in splendidi giardini segreti, in modo da piegarli alla sua volontà e trasformarli in inarrestabili macchine da guerra.

Simili fantasticherie non appaiono nella pur virulenta polemica anti-ismailita portata avanti dagli scrittori musulmani: se ne deduce che il mito degli assassini riflette la scoperta e la fascinazione degli europei (“l’ignoranza immaginosa”, come la chiama il più autorevole studioso di storia dell’Ismailismo, Farhad Daftary) per alcune cose affatto ignote o misteriose nei paesi musulmani, l’hashish/oppio e i piaceri sensuali dell’harem, sublimati fino ad un livello paradisiaco da un’Europa che aveva appena finito di mortificare la carne.

Oltre alle droghe e alle concubine i temi ricorrenti delle trattazioni letterarie del mito sono:

  1. – la devozione cieca alla volontà del leader, esemplificata dagli adepti che si buttano in un precipizio a un ordine del loro capo. Guglielmo da Tiro è stato il primo a narrare il “salto della morte” che il leader degli ismailiti siriani avrebbe organizzato per impressionare Henri de Champagne nel 1194 durante una visita diplomatica, ma è Arnoldo di Lubecca a trasformarla in una pratica di “routine” tra gli assassini;
  2. – i giardini di delizie ultraterrene, che miscelano le promesse dell’aldilà coranico e la tradizione del giardino regale antico-persiano (tra l’altro all’origine della parola “paradiso”). Sembrano essere stata una trovata di Marco Polo (Jacques de Vitry, vescovo di Acri, ne aveva parlato, ma senza stabilire alcun nesso causale tra i giardini e la credenza di essere in paradiso), del resto in linea con le descrizioni entusiaste presenti nel resoconto dei suoi viaggi che valsero al libro il titolo di Milione;
  3. – la Storia dei tre compagni di scuola, Hassan-e Sabbah, il Gran Visir Nizam ul-Mulk ed il poeta Omar Khayyam, la cui antica amicizia sarebbe sfociata in rivalità. La sua origine è da rintracciarsi nel Sargozasht-e Sayyidna, uno dei pochi testi ismailiti scampati alla distruzione della biblioteca di Alamut del 1257 per ordine dei Mongoli, che permisero al loro storico di corte Juwayni di esaminare i testi prima del rogo. L’aneddoto venne incluso nella traduzione delle quartine di Omar Khayyam di Edward Fitzgerald, che a partire dal 1859 influenzarono intere generazioni di letterati Europei iniziandoli alla poesia persiana.La fascinazione intellettuale nei confronti dei cosiddetti assassini raggiunse forse l’apice durante il tardo romanticismo degli anni Quaranta dell’800, quando Gautier, Baudelaire, Hugo, De Nerval, Dumas e Balzac sperimentavano droghe al club des Hachichins all’ Île Saint-Louis.I resoconti di viaggio in Persia di Freya Stark, pubblicati nel 1934 nel best-seller Le valli degli assassini, portarono per la prima volta l’interesse del pubblico sui luoghi degli ismailiti, ovvero le lunari pendici dei Monti Elburz, dove si dipanano le avventure narrate nel romanzo di Bartol.
  4. Nel 1893 Judith Gautier, figlia di Teophile Gautier e di Ernesta Grisi, la sorella della grande ballerina di Visinada Carlotta Grisi, scrisse Le vieux de la montagne, romanzo incentrato su Rashiduddin Sinan, il capo carismatico degli ismailiti siriani al tempo delle crociate.