Per condor erano tre giorni. Per noi?

| | |

di Stefano Crisafulli

 

‘Insomma che vuoi da me?’, chiede ad un certo punto del film Kathie (Faye Danewey) a Joe Turner (Robert Redford), nome in codice Condor, e lui risponde: ‘Solo poter fermare tutto, cancellare tutto per un attimo, per il poco che resta di questa notte. E andare via’. La scena fa parte del film I tre giorni del condor (1975), diretto da Sydney Pollack e interpretato dalla coppia Redford – Danewey e dal grande Max Von Sydow, che impersona con assoluta maestria un killer gentiluomo, e l’ho citata per intero perché, in questo momento, anche noi siamo nella stessa situazione del Condor. Anche noi vorremmo ‘poter fermare tutto, cancellare tutto per un attimo’ e tornare indietro nel tempo, magari a dicembre 2019, quando il virus non si era ancora manifestato in Italia. Ma non si può. Il tempo, come si sa, è irreversibile e allora è meglio utilizzarlo bene, ad esempio rivedere questo thriller ben costruito a partire da una sceneggiatura del libro di James Grady ‘I sei giorni del Condor’ (nel film sono solo tre, i giorni, probabilmente per ragioni di compressione temporale dell’azione) e per rendere omaggio a Max Von Sydow che è morto l’8 marzo di quest’anno. Attore bergmaniano (Il settimo sigillo, Luci d’inverno, Il volto) di straordinaria presenza scenica, Von Sydow, nel film di Pollack, fornisce un’aria ironica e distante alla figura inquietante di un killer mercenario al soldo della Cia.

Ma andiamo con ordine. La storia del film comincia con una scena di sicuro impatto visivo: in una sede distaccata della CIA, mascherata da società letteraria, un gruppo di agenti non operativi, che svolgono mansioni burocratiche, vengono uccisi. Tutti tranne uno, Joe Turner, addetto alla lettura di libri, che era uscito a prendere la colazione. Da quel momento in poi Turner, il cui nome in codice è ‘Condor’, dovrà fuggire per non essere ucciso anche lui e scoprirà, via via, un complotto all’interno della stessa CIA, che qui non riveleremo per rispettare coloro che non hanno ancora visto il film. Per evitare di essere ucciso e non potendo tornare a casa propria, Turner costringerà una donna, Kathie, ad ospitarlo per una notte. Il tutto con un ritmo incalzante, che Pollack intreccia alla perfezione con il soggetto hitchcockiano del sospettato incolpevole e con la rivelazione di un complotto, stavolta non molto lontano da possibili spunti reali che la CIA stava mettendo in atto in alcuni paesi sudamericani proprio in quegli anni. Sarà sicuramente un caso, infatti, ma proprio l’operazione autorizzata da Nixon per destabilizzare paesi come Brasile, Bolivia e Cile si chiamava ‘Operazione Condor’.

Riallacciandoci ai temi del film e all’attuale emergenza virus, l’identificazione del cittadino italiano (e non solo) col protagonista rimane sorprendente: Joe Turner sta cercando di proteggersi da un nemico invisibile, subdolo e onnipresente, che può trovarlo in ogni momento. Effettivamente la somiglianza tra la CIA e il coronavirus è notevole. Ma andiamo oltre questo paragone, per rievocare una delle scene più belle del film, che ha come protagonisti Turner/Redford e il killer Max Von Sydow: Condor è andato dalla moglie di uno dei colleghi uccisi per avvisarla che dovrebbe andarsene di casa al più presto al fine di evitare una sorte simile. Dopo averlo fatto, però, si trova a tu per tu con Joubert e i due prendono assieme l’ascensore: la sequenza è di autentica suspense. Joubert, infatti, non può uccidere Turner perché ci sono altre persone che salgono sull’ascensore, nel frattempo, però, dialoga amabilmente con lui, con un sorrisino agghiacciante per noi spettatori che sappiamo cosa è venuto a fare, e si prende pure la briga di raccogliergli il guanto di pelle che gli è caduto per terra. Joe ‘Condor’, ad un certo punto si accorge di che pasta è fatto quel passeggero ‘casuale’, ma deve aspettare ancora qualche piano per poter schizzare fuori dall’ascensore, cercando di tornare nel suo nascondiglio sano e salvo. Ci riuscirà? Anche stavolta non lo riveliamo. E noi, ci riusciremo? Magari fossimo in un film, almeno sapremmo come va a finire. Anche perché la maggior parte dei film ha un lieto fine.