Foto e poesie in un aeroporto

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Parole e immagini, arrivi e partenze, proposte da una mostra ai passeggeri in transito

di Walter Chiereghin

 

Devo dire che mi era sembrata un’idea un po’ balzana, quella di allestire negli spazi del “Trieste Airport” una mostra di immagini fotografiche. Più balzana ancora quando ho saputo che le immagini sarebbero state affiancate da poesie, destinate a dividersi con esse lo spazio espositivo allestito in quell’area di passaggio. Artefici della singolare iniziativa Mauro Marcellini, che ha eseguito le immagini e Luisella Pacco, preziosa collaboratrice del Ponte rosso e autrice dei testi poetici che avrebbero intervallato, nell’esposizione, le opere fotografiche. I due non sono nuovi a tali collaborazioni, avendone realizzata una analoga nel 2009, ospitata allora presso la Libreria Feltrinelli di Trieste, luogo che appariva senza dubbio più adeguato di un aeroporto per iniziative del genere.

Un aeroporto è, per definizione, un non luogo, secondo l’identificazione che ne ha fatto l’antropologo francese Marc Augé in un suo ormai celebre saggio del 1992, arrivato in versione italiana da noi qualche anno più tardi. Un luogo, cioè, non identitario, se non per coloro che entro quello spazio lavorano; mentre per tutti gli altri è un luogo del tutto impersonale, di transito frettoloso e sovente infastidito, come difatti mi è apparso il sito della mostra, ospitata in un corridoio al primo piano dell’aeroporto che conduce a un bar dove vendono, a self service, acqua minerale a più di quattro euro al litro.

Soffermandomi a considerare le opere esposte, tanto quelle fotografiche che quelle letterarie, ho dovuto presto recedere dalla mia aprioristica diffidenza, al punto che ho finito per considerare quell’improbabile spazio espositivo come quello che meglio di ogni altro si adattava ad ospitare quei materiali, radunati sotto il titolo “Della linea e del punto: dell’identità e dei suoi liquidi confini”. La ragione di tale mio ravvedimento risiede nel motivo ispiratore delle opere esposte. Si tratta, difatti, di ritratti fotografici eseguiti riprendendo la medesima persona a un intervallo più o meno lungo, da pochi giorni a molti mesi o anni, ed esibendo accoppiate in un’unica stampa le due immagini così ottenute. Un accostamento che chiama in causa alcuni concetti tutti pertinenti a uno spazio aeroportuale: la separazione, il confine tra i due ambiti oggetto della ripresa, il tempo, la partenza e l’arrivo, il viaggio (nel tempo per le immagini, nello spazio per l’aeroporto). Tutti fattori che contribuiscono a rendere particolarmente adeguato lo spazio espositivo prescelto.

L’intervallo tra le due immagini proposte dalle stampe fotografiche diviene parte integrante ed essenziale dell’opera prodotta, uno iato che idealmente viene riempito da una riflessione che si affaccia spontanea alla mente e concerne una problematica dell’identità personale, quasi fosse un esplicito risalto alla constatazione – banale se si vuole – per cui l’io si manifesta nella sua connotazione di dinamico divenire, mentre invece, più che altro per comodità e pigrizia, ci vien fatto di considerarlo statico e immutabile nel tempo. è il medesimo sbigottimento che può accadere davanti a uno specchio, o a un nostro ritratto fotografico di qualche tempo passato (non importa quanto) in cui si fatica a riconoscere noi stessi, un’immagine di noi resi improvvisamente inidonei a far collimare quanto si presenta alla nostra vista con la memoria di quanto ci appare osservando, con opportuna superficialità, quanto quotidianamente ci rimanda uno specchio.

Le immagini confezionate da Mauro Marcellini, con i singoli abbinamenti che propongono, possono allora suscitare un corto circuito emotivo tale da muovere una quantità di riflessioni in ciascun osservatore, secondo la sua esperienza e la sua sensibilità.

I testi poetici proposti da Luisella Pacco suggeriscono alcune interpretazioni di quanto si trasferisce dalle immagini stampate alla riflessione di chi le osserva e sono versi problematici, concentrati sulle epifanie di esitanti identità, abbandonando la visione narcisistica della strega di Biancaneve per mettersi più responsabilmente in colloquio con se stessi: «Specchio, specchio / della mia fame // del mio bisogno di ritrovare / intera //la faccia che non c’è / e un tempo c’era ».

Opportuno, allora, lasciare a lei, attraverso questa esigua selezione di testi, la parola che, meglio di quanto possano fare le mie, riesce a indicare alcuni percorsi interiori che rendono appieno merito a questa esposizione nell’area di transito di un non luogo qualsiasi.

 

 

Riquadro 1:

 

 

Eri.

Sei.

 

Indicativo liquido

che nelle sue onde

imperfette e presenti

 

 

non riesce a dire il lungo mare piatto

che hai sofferto e navigato,

 

di quanto non eri più

di quanto non sei ancora.

 

 

 

Riquadro 2:

 

Non chiedere.

Sei tu

la soluzione.

 

Tuoi la volontà e il capriccio, tue

l’azione o l’indolenza, tue

la guerra e la pace.

 

Tuoi gli anni e l’arte di piegarli.

Tua la mente che non dorme.

Tue le mani,

 

colme.

Riquadro 3:

 

 

Chi eravate, chi eravamo, chi ero, chi eri

 

ieri?

 

Chi eri ieri, chieriieri…

 

Suona persino male, senti?, la domanda.

 

Ma quanto di più duole

se è taciuta.