Franco Dugo 80

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Una mostra a Pordenone per celebrare gli ottant’anni dell’artista goriziano

di Walter Chiereghin

Lo scorso 9 giugno Franco Dugo ha compiuto ottant’anni. Quel giorno, in una trattoria di Sant’Andrea, a Gorizia, abbiamo pranzato assieme con Giancarlo Pauletto, che ho conosciuto di persona proprio in quell’occasione. La sera dell’11 dicembre ci siamo ritrovati tutti e tre, assieme a numerosi altri, per l’inaugurazione di una mostra, “Franco Dugo. Interrogare la vita. Dipinti, disegni, carte d’atelier”, con la quale la Galleria Sagittaria di Pordenone ha voluto festeggiare questi ottant’anni del maestro goriziano. Curatore, fatalmente, Pauletto: «Il responsabile di questa mostra è solo lui – precisa Dugo – io mi sono limitato a mettere a disposizione le opere, ma la scelta delle cose da esporre è stata soltanto sua». Si è trattato di una scelta particolarmente azzeccata: che ha escluso l’opera grafica – che meriterebbe un’antologica a sé – e, per ragioni di spazio, dei dipinti di troppo grande formato, Per il resto, la selezione attuata dal curatore ha messo in evidenza opere, principalmente su carta, eseguite dagli anni Settanta ad oggi, accompagnando il visitatore in una promenade che si snoda attraverso i territori connotati dall’ispirazione che ha indotto Dugo a realizzare un’intensa produzione organizzata per cicli, secondo una progressione cronologica che parte dagli anni Settanta, nella stagione dei suoi esordi espositivi, per arrivare ai nostri oggi. Per ciascuno degli ambiti presi in considerazione dal curatore, sono stati presentati i percorsi che hanno condotto all’esecuzione di opere finite, spesso a partire dai primi studi e dagli abbozzi che, a iniziare dai taccuini e dai quaderni dove Dugo ha abbozzato le prime forme di un’idea, hanno poi condotto all’esecuzione finale. Si tratta di prove d’artista che di norma costituiscono di per sé opere autonome, dove si esercita fin dalle prime intuizioni figurative la meticolosa cura di un artefice che non si esercita in frettolosi appunti, tanto che molte delle carte inedite presentate alla Sagittaria possono risultare esiti compiuti e rifiniti, assai più che bozze sintetiche e incomplete.

Si procede dunque a partire dai primi anni, nella visione drammatica di corpi e figure in disfacimento, esibiti in una degradazione priva di speranza, in toni espressionisti funzionali ad una rappresentazione di esplicita denuncia sociale, che già si articola in riproposizioni seriali di soggetti (si pensi alla serie dei Burocrati, o alle stralunate figure degli internati nelle strutture manicomiali in cui per la prima volta si manifestavano i tentativi della rivoluzione copernicana avviata proprio a Gorizia – e poi pienamente realizzata a Trieste – da Franco Basaglia).

Fin da questo primo periodo della parabola creativa di Dugo si manifestarono alcune connotazioni del suo lavoro, che ha poi seguito con coerenza strade in gran parte formalmente diverse, ma tuttavia animate, come in queste prime prove, da un interesse partecipe per la condizione umana, che nel prosieguo si concentrerà soprattutto su posture e fisionomie, esplorando con accanimento di ricerca una sua ritrattistica che intende approfondire, nell’esecuzione, una conoscenza piena del soggetto rappresentato. A questo proposito, in un’intervista pubblicata su queste pagine nel numero 35 del giugno 2018, così rifletteva Dugo, a proposito del volto ma anche del corpo «che almeno in parte è quasi sempre presente nei miei ritratti, dato che l’atteggiamento e la postura sono parte della rappresentazione di sé che ciascuno offre a chi lo guarda. L’esercitarsi sui tratti somatici di una persona significa in qualche modo penetrarne l’essenza, entrare in un rapporto quasi dialettico con lei e creare quindi un’immagine del soggetto da presentare a terzi per allargare ad altri la conoscenza acquisita. Di norma non eseguo mai ritratti su commissione, devo essere attirato dal soggetto per ragioni mie, che talora sfuggono persino a me. Se prendi per esempio i miei ritratti dei pugili, derivano sicuramente dall’aver praticato la boxe negli anni giovanili. Sono i ritratti di pugili per lo più dilettanti, non dei grandi campioni, gente che saliva sul ring per prendere qualche soldo, magari per arrotondare i proventi del lavoro da manovale. Sono cose di questo genere che mi fanno entrare in empatia con i miei soggetti» (l’intervista intera è disponibile, per chi volesse leggerla, all’indirizzo web https://www.ilponterosso.eu/2018/07/11/le-nuvole-meravigliose-di-franco-dugo-2/).

Il ciclo di opere preparatorie delle grandi incisioni relative al Ratto della Gioconda, nei primi anni Ottanta, si configura come un’autentica narrazione del celebre furto del capolavoro leonardesco dal Louvre nel 1911, e la lettura che fa Dugo del clamoroso fatto di cronaca risulta intrisa di un’ironica riflessione su quella sconclusionata vicenda e, soprattutto, sull’arte, presente quasi in ogni tavola con l’icona inconfondibile di Monna Lisa, della quale viene proposta anche un’irriverente versione da buoncostume, tale da indirizzare la riflessione dell’autore, ma sicuramente del curatore, circa il fatto che anche l’arte, al di là di ogni idealistica esaltazione, sia in definitiva merce che come tale si vende e si compra.

Le uniformi e i pastrani dei carabinieri che avevano arrestato Vincenzo Peruggia e recuperato il dipinto di Leonardo sembrano preludere a un ritratto, a una serie di ritratti anzi, di un carabiniere che conta molto nella biografia di Dugo: si tratta di suo padre, perduto dall’artista quando aveva quattro anni, essendo stato catturato dai partigiani del IX Corpus jugoslavo assieme a diciotto colleghi, di cui non si seppe più nulla. Alcuni dei ritratti che riguardano la figura paterna, quasi sempre in uniforme, costituiscono il fulcro della sezione intitolata Di casa, che comprende la rivisitazione di persone di famiglia, attuata partendo da vecchie stampe fotografiche di piccole dimensioni, probabilmente ottenute da contatto del negativo con la carta, che hanno obbligato l’artista a ispezionarle con l’ausilio di una lente. Siamo già negli anni Novanta, e l’accurata ricerca formale in particolare dell’immagine del padre in divisa rivela un’attenzione spasmodica, che è comprensibile ove si rifletta sulla motivazione che ha spinto Dugo a cercare un padre che non aveva mai conosciuto, a «farlo vivo, credibile e lontano allo stesso tempo, con un impegno e una concentrazione che si possono immaginare» rileva Pauletto nel saggio che apre il bel catalogo della mostra, osservando poi con acutezza d’analisi come nei disegni preparatori l’immagine si a più definita e marcata in alcune parti e più sfumata in altri dettagli, ad esempio nella nitida definizione della lucerna poggiata su una sedia le cui gambe finiscono per scomparire nella parte inferiore.

Anche quantitativamente rilevante la produzione di ritratti in esposizione, a partire dalla lunga serie di pugili, dei quali qualcosa già s’è detto, per allargarsi poi a scrittori, artisti, poeti e musicisti, alcuni dei quali conosciuti personalmente, come Altieri e Mocchiutti, mentre molti altri sono quelli incontrati nella lettura, nella visione o nell’ascolto, da Joyce a Svevo, da Mann a Kafka, da Luzi a Pasolini, da Ciril Zlobec a Edgard Lee Masters, da Miles Davis a John Coltrane, ritratto, quest’ultimo, su uno sfondo neutro assieme al suo sassofono, come se il musicista e il suo strumento fossero consustanziali e interdipendenti. L’assidue dedizione alla ritrattistica – che nella mostra esibisce anche due intensi autoritratti – sembra rispondere all’esigenza di indagare la condizione umana mediante un rapporto diretto con il soggetto rappresentato, in un confronto interpersonale dialogico, un confronto alla pari dal quale l’artista si ripromette una più piena e profonda comprensione della persona che ritrae.

Quasi sulla soglia degli anni Novanta, l’attenzione di Dugo sembra spostarsi dall’uomo, dai singoli individui sui quali si era fin lì esercitata la sua indiscutibile capacità espressiva, all’ambiente in cui tanto lui che i suoi soggetti sono immersi e l’artista rivolge lo sguardo su alberi, distese marine, boschi intricati, cieli animati da suggestive formazioni di nubi, le nuvole meravigliose di cui parlava Baudelaire nel suo Lo straniero. Lo sguardo si muove con curiosità e viva partecipazione dal particolare – e abbiamo allora veri e propri ritratti di fusti d’albero – alla stupefatta contemplazione di orizzonti più vasti, come nei cieli o nelle marine. Anche qui, nella sua stagione di paesaggista, l’artista non deflette da una minuziosa ricerca della perfezione formale, in un realismo nitido e asciutto nel tratto o a volte indulgente a tentazioni impressionistiche, soprattutto nelle notazioni ad acquarello, e tuttavia l’esito non è mai meramente illustrativo, in quanto si percepisce in ogni immagine una precisa consonanza tra il soggetto e il sentire dell’artista, di modo che la percezione si sublima in una riflessione intrisa di lirismo.

Fatale che a questo punto del percorso figurativo ricompaia la figura umana, stavolta disegnata di spalle, in posizione liminale rispetto a quanto di incognito si presenta al suo sguardo, che si tratti di un fitto bosco di castagni – una sua selva oscura – o di una distesa marina altrettanto incognita e ancor meno penetrabile. è dunque lì, giunto al limite invalicabile del suo cammino, che luomo del dipinto sosta a interrogare la vita, come suggerisce il titolo della mostra, prima di muovere un ulteriore passo.

Vecchio albero

sanguigna e matita su carta, 2020