È solo un cane (dicono)

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Un libro di Marina Morpurgo

di Luisella Pacco

 

Devo iniziare col dirvi che non ho mai avuto un cane, né un gatto. Ho avuto dei pesciolini, ma è stata una desolante esperienza; morivano con frequenza imbarazzante, o di morte naturale o divorandosi l’un altro; uno di loro (forse il più intelligente, consapevole dell’atroce destino che gli era riservato) si suicidò anzitempo buttandosi fuori dall’acquario.

Insomma, la benedizione e l’allegria di un animale per casa, non le ho conosciute, e per essere sincera non ne ho sentito la mancanza. Vuoi mettere un divano senza peli, un pavimento senza sorprese, una pantofola ritrovata esattamente dove il piede l’ha lasciata?

Poi però capita di leggere qualche libro che mi instilla il dubbio… Forse mi sbaglio? Forse divano pavimento pantofola valgono niente dinnanzi a qualcosa che somiglia all’amore?

Libri come Alcibiade. Una suite per bassotto di Giuseppe O. Longo, letto e adorato, un po’ grazie allo stile di Longo che mi piace sempre (che si tratti delle labirintiche profondità di Di alcune orme sopra la neve o dell’ironia beffarda di alcuni dei racconti dell’Antidecalogo) e un po’ grazie ad Alcibiade in canina persona per la sua simpatia e tenerezza.

E come il libro che ho letto ora, e di cui vi parlo: È solo un cane (dicono) di Marina Morpurgo.

In quel “dicono” messo tra parentesi, ci sono tutte le persone come me, quelle che pur rispettando e amando gli animali non ne hanno mai avuto uno e quindi non sanno, non possono sapere, quanto diventi importante averlo vicino né quanto sia doloroso perderlo.

Tutto prende avvio in Toscana, a Gambassi, oggi Gambassi Terme, sui cinquemila abitanti, che in tempo di guerra doveva essere un paesello. Bello panoramico e povero, con le case di pietra e un mare, a perdita d’occhio, di colline tonde e morbide.

Lì accadono due cose molto rilevanti per Marina. Nell’ottobre 1943, trova rifugio e salvezza la famiglia materna in fuga dai nazifascisti (perciò, senza Gambassi, Marina non avrebbe mai visto la luce). E sempre lì, molti anni dopo, in un allevamento nasce Blasco, che diventerà il suo cane.

Marina lo prende a Pavia, e che sia nato a Gambassi lo scopre soltanto dopo, guardando il libretto sanitario per le vaccinazioni. Inevitabilmente colpita dalla coincidenza, Marina fa due più due, che per la maggior parte delle persone vuol dire quattro, ma per una scrittrice e giornalista vuol dire un senso, un messaggio, un filo, un destino: insomma, una storia da raccontare.

La cosa che mi piace pensare è che Blasco me lo abbia mandato in dono, per farmi compagnia, la nonna Irma […] una donna forte, impetuosa, affettuosa e solida. In un clima familiare che Marina ricorda malsano di paure, gelosie, ricatti affettivi, la nonna era un rifugio, forte e giusta, buona divertente ma inflessibile, un bastione, con il petto grande, le gonne e le maglie perennemente impadellate d’unto.

Blasco è un cane allegro e buffo (Cane portoghese da lavoro sulle barche, dicono i testi, ardito e fiero. Cane che non sa nuotare, dico io, fifone oltre ogni immaginazione), decisamente poco interessato alle vicende storico-familiari.

Le pupe sono troppo sentimentali (ci spiega; eh sì, perché Blasco parla, oh se parla!). Questa qui poi è veramente obnubilata e vede segnali profondi e poetici dappertutto. Non ho il coraggio di dirle la verità, perché le sono affezionato, povera donna. Se solo non fosse così enfatica; così groupie. Il fatto è che mi è piaciuta al primo colpo perché era grassa. Da cane navigato e intelligente e sagacissimo quale sono so perfettamente che quelli grassi non fanno altro che aprire il frigorifero e mangiare tutti i momenti, e pescare dalle pentole, e quando apri il frigo e peschi dalle pentole è facile che ti caschi della roba. È matematico. È scienza.

A sette anni e mezzo, Blasco si ammala. Entra in ambulatorio veterinario per un disturbo che sembra banale e ne esce con una diagnosi terribile: osteosarcoma, il peggiore dei tumori canini.

La gente cerca maldestramente di consolare Marina dicendo che, beh, sì, spiace, ma è solo un cane, l’importante è che non soffra, vivetevi bene questi ultimi giorni, e altre banalità.

Perché poi davanti ad una cosa grande e temibile come la morte le parole debbano diventare così piccole uguali sciocche, è un mistero difficile da comprendere.

Marina lo noterà ancora di più quando si ammalerà la madre. Per orrore della sofferenza molti tendono a recitare un po’ troppo precipitosamente il De profundis, a spingerti a gettare la spugna prima del tempo, quando è ancora lecita e ragionevole qualche speranza.

Speranza, appunto, è quella che spinge Marina in una clinica fuori Milano da un oncologo canino con gli occhi all’ingiù ma sorridente, uno che le ispira fiducia: un’ottima faccia con cui dichiarare guerra alla morte.

L’intervento è difficile, le conseguenze invalidanti, ma Blasco è forte, e Marina lo è pure, ed ironica e ottimista; tanto da cambiare farmacia quando la farmacista diventa un po’ troppo patetica, con quella boccuccia aperta sulla O di Oddio! ogni volta che vede Blasco senza una zampa; tanto da voler scappare da chiunque la fermi per strada con lacrimosissime storie e pacche sulla spalla.

In un continuo andirivieni della memoria, Marina ricorda tutte le brave persone il cui destino s’è legato al suo. Non solo quelle che hanno aiutato Blasco, ma anche quelle di ieri, di uno ieri lontano ma indispensabile per esser vivi oggi: quell’Anna Landi che nell’ottobre ’43 indicò alla famiglia la strada da seguire per sfuggire alla morte; quel Niccolò Cuneo, partigiano amico dei nonni; la storica dell’arte Fernanda Wittgens che salvò molti ebrei e molte opere di Brera… E il nonno Guido, pacifico e inoffensivo, così ingenuo e buono da non poter credere alla gravità della situazione nemmeno dopo le leggi razziali, e la nonna Irma, e la zia Valeria, e…

In certi momenti mi sono persino seccata. Perdinci, mi son detta, perché devo leggere la storia e guardar foto (e albero genealogico!) di persone che manco conosco?

E immediatamente mi sono ricordata che anche per un altro libro, l’anno scorso avevo avuto la medesima perplessità. Era la recensione di Il mondo senza noi di Manuela Dviri.

Avevo usato persino identiche parole. In un labirinto di nomi e date, ci sono stati momenti – lo confesso – in cui mi sono chiesta Chi sono queste persone? Perché leggo vicende di famiglie che non sono la mia?

Salvo poi, entusiasta della lettura, chiudere l’articolo così: Eccolo, il perché: perché quella Storia unica, e quelle storie singole, e quell’amore, e quella perdita, e quella persecuzione, e quella paura, e quella tenacia, e quel senso di famiglia così profondo e sacro, e quell’intero mondo – tutto ciò è anche mio, vostro.

Col memoir di Marina Morpurgo, il percorso è stato lo stesso: questa storia non mia in fondo lo è. Qualsiasi storia, se narrata e letta col cuore, lo è, lo diventa.

E poi, come non apprezzare la principale lezione di questo libro, su come godere del tempo che ci è concesso? (Ma “lezione” non è la parola giusta perché non c’è saccenza; è messa lì con leggererezza, a margine del racconto, come un dettaglio che però riluce).

Blasco è solo un cane, ma mi ha insegnato una cosa fondamentale. A dare un segno più ai giorni, e non un segno meno; a smetterla di fare i conti alla rovescia, per farli dritti. Conto i giorni che stiamo vivendo, e non quelli che mancano per arrivare alla fine della sopravvivenza media. E così mi godo le sue corse nel sole, le capriole nei prati, i salti, e probabilmente riesco ad applicare ad altre situazioni questa nuova sapienza acquisita con difficoltà, tra lacrime e patemi. Ogni minuto ne vale mille di quelli di prima, di quando non sapevo. Intanto abbiamo rubato un autunno, e ci siamo rotolati nelle foglie. Abbiamo rubato un inverno, e ci siamo rotolati nella neve. Ho le tasche piene di sassolini. E se ruberemo anche la tarda primavera rotoleremo sui prati verdi del disgelo in alta montagna, che sono sempre i più belli.

 

 

Marina Morpurgo

È solo un cane (dicono)

Ed. Astoria, Milano 2016

  1. 99, euro 12,00