Erich Lessing e Wendy Sue Lamm

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La bella vita del critico d’arte / 18

di Giancarlo Pauletto

 

Sempre in tema di apprezzamenti e gratificazioni continuo, e racconto qualche altro episodio a bilanciare certe lettere astiose, e talvolta insultanti, ricevute in tanti anni di lavoro – l’ultima poco tempo fa –: da artisti di cui avevo parlato male?

Ma no: da artisti di cui, semplicemente, non avevo parlato, essendo troppo corti il tempo e lo spazio della vita per dedicarli anche a quel che non interessa.

Nell’autunno del 2000 si tenne, alla Galleria Sagittaria di Pordenone, una grande mostra di Erich Lessing (1923 – 2018), tra i maggiori fotografi del Novecento, cronista di eventi storici epocali, come la rivoluzione ungherese del 1956, e di molti importanti eventi politici, oltre che fotografo d’arte e di “evocazioni” relative a grandi personaggi della storia culturale quali Galileo, Machiavelli, Newton, Pascal, Beethoven, Proust e molti altri.

Diedi una forte mano all’allestimento, intervenni all’inaugurazione e scrissi una recensione che qui riproduco in parte, affinché il lettore possa ricavare un’idea un po’ più ravvicinata dell’evento.

«Sono caratteri e climi precisi quelli che Lessing riesce a trasmettere, e non potrebbe farlo, naturalmente, se prima non li avesse colti, cioè giudicati, cioè posti in una gerarchia d’importanza e valore. Solo così si spiega la strepitosa foto che riprende Khrushchev, Tito e la moglie Jovanka nel maggio del 1955 a Belgrado, nella quale è perfettamente stampata tutta la tensione che presiedette a quell’incontro, la lievitante incertezza, l’ira repressa, un camminare sulle uova che racconta molto più di un articolo di cronaca, per quanto ben fatto.

Né manca ironia o tragedia, in questo raccontare il secondo Novecento: l’immobile desolazione in cui, nella Vienna del ’53, due donne osservano il faticoso procedere di un mutilato, che a braccia muove la sua carrozzina; lo sguardo perplesso della bambina verso il marmoreo busto di Lenin nella Polonia del ’56, o i morti a Budapest nello stesso anno.

E non mette conto sottolineare la capacita di formalizzazione che Lessing possiede, in sommo grado: varrà tuttavia dire che essa è sempre al servizio della comunicazione, mai sovraesposta.

Osservazione che ci permette di passare utilmente a considerare la seconda parte della mostra pordenonese, dedicata alle cosiddette “evocazioni”, sequenze nelle quali Lessing fa rivivere, attraverso luoghi, oggetti, ambienti, le storiche figure di scienziati, musicisti o scrittori […]. Sono sequenze a colori e non in bianconero, nelle quali la formalizzazione è ricercata ed esibita, la scena costruita, la teatralità sottolineata […]. Come la storia del Novecento aveva bisogno, nel momento del suo farsi, di quella fotografia diretta, colloquiale, apparentemente poco “costrutta”, così la storia fissata, emblematica, “chiusa” del passato ha invece bisogno di un massimo di formalizzazione e di immobilità, di un massimo di individuazione e, per così dire, di mitizzazione.[…].

Si racconta una sorta di sacra leggenda, quella dell’arte e della cultura, per la quale siamo uomini. Così anche la preziosità del colore, in queste immagini – la raffinatissima preziosità che traduce l’immobile patina del tempo – diventa fondamentale strumento del “racconto” di Lessing, non solo fatto di gusto, ma ancora strumento di comunicazione».

Mi resta, dedicato dalla moglie del fotografo – non presente in quei giorni a Pordenone – il catalogo: Erich lessing. Fifty Years of fotography.

Ecco la dedica: «Al professore Giancarlo Pauletto/ thank you, merci, grazie, danke…/ without you no mostra!!»

E la firma.

E il chiaro sorriso con cui fu fatta.

 

Mi procurò, la fotografia, anche altre soddisfazioni.

Nella primavera del 2007 Dedica – l’iniziativa culturale pordenonese che da molti anni ormai “dedica” una serie di eventi a notissimi scrittori internazionali – invitò a Pordenone l’israeliano Amos Oz, che molti amanti del romanzo contemporaneo conoscono bene.

Tra gli eventi collaterali fu organizzata, presso il teatro Verdi, una mostra della fotografa americana Wendy Sue Lamm, vincitrice tra l’altro di un premio Pulitzer.

Essa era intitolata Dalla terra dei miracoli, e si riferiva naturalmente alla Palestina: mi fu chiesto di allestirla e presentarla, a voce e per iscritto.

Ecco un brano di quanto scrissi: «Quel che giornali, televisione, e anche i personali tentativi di comprensione dei fatti, perseguiti leggendo articoli di riviste e libri, ci permettono di cogliere della situazione attuale della Palestina, non possono che confermare la giustezza e la bellezza del titolo di questa mostra fotografica di Wendy Sue Lamm: Dalla terra dei miracoli, una mostra che accompagna come meglio non si potrebbe la presenza di Amos Oz a Pordenone.

Giustezza del titolo perché la Palestina è terra dei miracoli anzitutto – e ovviamente si potrebbe dire – in rapporto alle tre grandi religioni che su di essa insistono, quella ebraica, quella cristiana e quella musulmana, presenti in alcune immagini caratterizzate dalla loro riconoscibile socialità e ritualità.

Ma terra dei miracoli anche perché, in mezzo a tante tensioni, stragi, disperazioni, terrori la vita continua, la quotidianità in qualche modo vince e, accanto ai soldati in assetto di guerra, la gente va alla spiaggia, prende i bagni nel Mar Morto, fa la spesa al mercato, mentre i bambini giocano, un giardiniere annaffia il prato, alcuni pellegrini russo-ortodossi si bagnano nel fiume Giordano e qualcuno pensa a mettere nuove piante in un nuovo giardino.

La cifra estetica fondamentale della mostra è la presa diretta, il primo piano, la messa in evidenza di un tempo presente che si incarna immediatamente nei tagli prospettici, nelle figure, nei colori delle immagini […]. Il punto di vista di Wendy Sue Lamm è caratterizzato da una profonda adesione alle cose, ai corpi, ai volti, si potrebbe dire agli odori, e il suo obiettivo non inquadra, non mette in scena, ma sta in mezzo, chiama dentro, costringe a partecipare».

Nella presentazione a voce insistetti su questa capacità dell’artista di metterci di fronte alla vivezza e anche alla crudezza dei fatti, che mi pareva essere il senso principale della mostra, una testimonianza accorata e insieme ferma, in nulla edulcorata, della realtà.

Wendy mi ringraziò alla fine, ma poi fece dell’altro: mi spedì qualche tempo dopo, da Santa Monica in California, una lettera che conteneva undici fotografie scattate durante l’allestimento, in tre delle quali io ero all’opera, ad apprestare spazi e ad alzare immagini.

Le accompagnava un biglietto che trascrivo e non traduco, perché è scritto in un inglese che capisco perfino io: « Dear Giancarlo Pauletto, i want to thank you again for taking such care and putting up such a fine exhibit of “Dalla terra dei miracoli”.

Enclosed are a few “snapshots”.

It was a pleasure meeting you, and my best wishes always.

Sincerely,

Wendy Lamm».

Sono cose che fanno piacere.

 

Erich Lessing

Berlino, 1957