L’utopia della vita esatta

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Le schiavitù del nostro presente

di Giuseppe O. Longo

 

Ogni passione può trasformarsi in ossessione e travalicare in schiavitù.

Si può essere schiavi di un’abitudine (che in linea di principio è utile e salutare e ci fa risparmiare tempo, ma che può diventare un’incrostazione paralizzante), dell’alcol, della droga, del gioco d’azzardo, della superstizione. Si può essere schiavi della passione esclusiva e divorante per gli scacchi (si vedano i romanzi La variante di Lüneburg e Teoria delle ombre di Paolo Maurensig) o semplicemente del collezionismo o delle serie televisive.

Si può essere schiavi della razionalità, della precisione, della matematica.

Si può coltivare l’utopia della vita esatta, logica, razionale e diventarne schiavi: su questa strada si giunge a ignorare il corpo e le sue facoltà per rifugiarsi in un mondo asettico e disincarnato, seguendo in ciò gli antichi filosofi greci, che avevano distinto due forme di conoscenza: quella corporea e sensibile, disprezzata e svalutata come non veritiera, e quella della mente, dello spirito, dell’anima, l’unica capace di fornirci la verità. Nata da Pitagora e Parmenide e ripresa da Platone, che teorizzò il mondo delle idee, questa visione mentale ha improntato di sé gran parte della filosofia occidentale e si è perpetuata nella scienza contemporanea: la fisica ci fornisce della realtà un quadro sempre più lontano da quello che ci forniscono i sensi. In effetti, secondo la visione scientifica, nulla è come sembra.

Sconfinando dalla scienza, la concezione ideale, razionale e computante ha improntato di sé anche una certa concezione della vita: si vorrebbe una vita esatta, basata sul calcolo, sulla matematica, sul calculemus leibniziano. Questa visione è stata mutuata anche da alcuni grandi scrittori, che hanno visto nella razionalità computante la vera natura del mondo e che hanno deprecato, in questo quadro così nitido e lindo, meccanicamente soggetto alla precisione di oliati ingranaggi, la presenza dell’inevitabile disordine causato dagli umani: Musil, Gadda, Calvino, il primo Sinisgalli…

Leonardo Sinisgalli, ingegnere e poeta, ci ha lasciato in Furor Mathematicus una testimonianza poetica e vivida del fascino greve esercitato su di lui dalla matematica, che minacciava di invaderlo e sopraffarlo affatto. Fu salvato, come accade, dall’amore carnale di una donna, che lo fece tornare dall’empireo dell’astrazione alla concretezza del mondo sublunare.

Mi resta tuttavia, dice Sinisgalli nelle pagine dove troneggia la meretrice “grassa e rossa… la donna superba dalla magnifica mascella equina”, mi resta “un residuo secco e cocente di verginità perduta”. E menziona “tutta la mia malinconia repressa, soffocata dalle squadre e dai compassi, dal calcolo degli infinitesimi, dalla ridda delle funzioni iperboliche, dalla teoria delle curve di secondo grado, dalla spirale logaritmica e dalla lemniscata di Bernoulli, dalle cuspidi, dai flessi…” Ma la segnatura alta della vita tornava a galla su quel letto squallido, tra le ali di quella fantastica gallina curcia.

E scrive ancora Sinisgalli: “Non ci sentiamo mai così vivi come in questi giorni che acqua e vento restringono intorno al nostro corpo, come intorno a una sepoltura”: durante l’inverno, stagione “minerale” e incorruttibile come tutte le cose fredde, come la matematica, dunque, perfette imitazioni di un vivere e morire inimitabili, in cui la negazione stessa della vita ne consente il prolungamento indefinito. Ed è forse per questo che gli uomini preferirono le macchine e la matematica ai loro compagni, anche se non bisogna farsi soverchie illusioni, perché dalla matematica, come “da certi inverni si esce irreparabilmente invecchiati, forse a causa di questo digiuno a cui teniamo costretti gli organi più vivi… La nostra solitudine si restringe.”

Un progressivo allontanamento dalle regioni astratte del pensiero puro, scarso d’ossigeno, pericoloso per la vita, e un cauto avvicinamento a discipline meno rarefatte: l’ingegneria, l’architettura, e di qui alla visione della Casa, che simboleggia la vita: “Ma una Casa, signor mio, non è una fortezza, o una cabina, è un nido, fatto di piume, di fuscelli, di fango. La Casa deve sapere di fumo, di capelli, di cane… V’immaginate una casa senza gatti? Lo so, voi avete fatto tutto per abolirli. V’immaginate una casa senza mosche?”

È il trapasso dall’utopia della vita esatta, della ricostruzione razionale del mondo, al riconoscimento che disordine e incertezza e approssimazione sono ingredienti ineliminabili, anzi, vitali, del mondo. E di qui si giunge a quella straordinaria pagina sulle case vuote:

“Un soffio tetro, un grido lontano, che non tanto deriva dallo stato di abbandono di quasi tutti gli edifici, e da quell’aria defunta che spira tra le camere vuote e i cortili, ma da una loro strana facoltà acustica, da un certo odore di cava che sprigionano i sassi e l’intonaco, dai molteplici imbuti d’ombra, da un che di gelido, di onirico…”

Dunque è solo scendendo dalle rarefatte altitudini della razionalità computante e geometrica, è solo spezzando le catene di questa schiavitù affascinante e medusea, che si può recuperare la vita e riconoscere che oggi siamo giunti alla fine delle certezze: abbiamo raggiunto una visione della vita e del mondo in cui regnano il caos, il disordine, l’approssimazione. Ed è con questo mondo impreciso, lacunoso e inesatto che dobbiamo fare i conti. È in esso che dobbiamo vivere.