Preferirei di no

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Mentre continuiamo ad assistere al quotidiano stillicidio delle morti scrupolosamente contabilizzate ogni sera, assieme al numero dei ricoverati, dei contagiati, dei tamponi eseguiti, di tutti i dati che pretenderebbero di offrirci un’immagine di quel che sarà il sospirato epilogo di questa piaga, speriamo tutti che si profili finalmente all’orizzonte il giorno in cui potremo vederci con gli amici, riabbracciare i nostri cari, prendere in braccio i nipotini o, disponendo di un’età adeguata, giocare ad avvolgere bigodini sulla testa di un vecchio zio benevolo e tollerante.

Speriamo in una ripresa dell’occupazione, nella riapertura di buona parte almeno dei negozi e dei locali che ora tengono le serrande abbassate, tornare a teatro, al cinema, in classe con i compagni che ora sentiamo solo al telefono, speriamo anche di viaggiare, di visitare musei e chiese, di riprendere a frequentare le biblioteche, confidiamo anche in una ripresa dei consumi che ci racconti di una miseria evitata, magari per un soffio, da qualche milione di italiani (per non parlare degli altri).

Speriamo, insomma, che la nostra vita riprenda dal punto in cui l’avevamo piantata lì, quando abbiamo dovuto chinare la testa sotto il giogo impostoci da questa devastante pandemia? Certo che sì, ma con qualche riserva.

Perché se mi chiedete se vorrei che torni come prima la celebrata “eccellenza” della sanità lombarda, per esempio, preferirei di no, alla luce di quanto è successo; preferirei che fosse ripreso il filo di una sanità pubblica che non delega all’iniziativa privata ogni ambizione di creare centri di eccellenza, che si preoccupi di rimettere in piedi servizi sanitari territoriali che costituiscano un primo fondamentale ausilio a chi ha problemi di salute e a chi intende premunirsi attraverso servizi di prevenzione che alla fine risultano, in molti casi, anche economicamente convenienti per l’erario.

Se poi mi chiedete se vorrei che torni ad essere quella di prima la classe dirigente di questo Paese, di nuovo dovrei rispondervi che preferirei di no. Per non vedere un’altra volta la triste telenovela dei commissari che dovrebbero curarsi della salute pubblica dei calabresi e che invece, nel pieno dell’infuriare del virus, è stata presentata all’opinione pubblica per quello che evidentemente è, una specie di barzelletta di quelle che non fanno ridere nessuno, ma semmai, rinfocolano l’indignazione impotente dei calabresi e degli altri italiani. Preferirei di no anche per non assistere ancora una volta alle buone intenzioni di una vaccinazione anti-influenzale di massa proposta, anzi sollecitata dalle autorità, che poi si scontra con una vergognosa mancanza di disponibilità delle dosi, ancora un volta in Lombardia, ma anche nel Lazio retto da un’amministrazione di segno politico opposto.

Se mi chiedeste, in accordo con quanto prima della pandemia veniva sollecitato, di estendere l’autonomia delle regioni sottraendo ulteriormente competenze allo Stato, di nuovo dovrei rispondere che preferirei di no, perché considero che i mesi che abbiamo fin qui attraversato (e quelli che prevedibilmente ci attendono) dovrebbero al contrario indurci a ripensare un federalismo improvvisato, costoso, conflittuale ed inefficiente, che ha reagito a questa presente ardua prova con un mortificante rimpallo di responsabilità, con mossettine di propaganda elettorale consistenti in molti casi nel sollecitare il governo a disfare quello che gli proponeva il giorno prima di fare, e viceversa, a seconda dei casi.

Confesso che credo poco all’eventualità di un repentino cambio di registro nel dopo covid 19, e ritengo probabile che alla fine tutto resterà come prima, in questo Paese così poco incline al cambiamento: un sistema sanitario sempre più orientato a smantellare la componente pubblica a vantaggio di quella privata, una torpida selezione della classe dirigente e non soltanto di quella politica, una conflittuale confusione di ruoli tra amministrazioni centrali e periferiche. Siamo sempre il Paese del Gattopardo, anche se preferirei di no.