Una metafora per i nostri tempi

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di Fulvio Senardi

 

«I marziani sembrano aver progettato il loro sbarco con straordinaria competenza – le loro conoscenze matematiche sono evidentemente molto superiori alle nostre – e aver messo a punto i loro preparativi con quasi perfetta coordinazione. Se i nostri strumenti d’osservazione l’avessero permesso avremmo potuto vedere già nel XIX secolo la catastrofe che si stava preparando. Uomini come Schiaparelli avevano osservato il pianeta rosso – è curioso, per inciso, che per secoli Marte sia stato considerato il simbolo della guerra – ma senza saper interpretare le modificazioni dei “canali” che avevano così ben individuato. Durante tutto quel tempo i marziani si stavano preparando».

Così nel primo capitolo di uno dei romanzi più famosi di Herbert. G. Wells (1866-1946), La guerra dei mondi (1896, I trad. italiana: 1901). Il tema dell’invasione marziana, che molto cinema ha poi raccontato sulla falsariga del romanzo, sembra quanto mai lontano dai nostri problemi di oggi, l’epidemia che ci sconvolge la vita. Eppure il libro di Wells – cui fu accreditata una capacità quasi profetica di prevedere il futuro – ci mette di fronte a uno scenario che rimanda al più attuale presente. I marziani alla conquista della terra sono, nel racconto di Wells, una razza super-intelligente che a scapito delle altre parti del corpo, ha sviluppato in modo abnorme il cervello: erano, scrive il narratore, un alter-ego dell’autore (è britannico, è scrittore) «praticamente solo cervello». Per poter sopravvivere hanno sviluppato una civiltà supertecnologica, ed è con raffinatissimi armamenti che muovono alla conquista della terra: «pur non indossando vestiti, la loro superiorità sull’uomo risiedeva nelle aggiunte artificiali alle risorse del loro corpo. Noi uomini, con i nostri vari mezzi di trasporto, i velivoli, i fucili e le artiglierie siamo solo all’inizio di quel processo evolutivo che i marziani hanno condotto a termine».

Chi ha un po’ di familiarità con Italo Svevo, anch’egli seguace dell’evoluzionismo come Wells, ritroverà concetti familiari, ricordando come, secondo lo scrittore triestino, «il malcontento e torvo uomo» imbocchi una sua strada evolutiva creando gli «ordigni» che suppliscono alla debolezza delle membra dando strumenti alla sua incontenibile brama di conquista. Il destino della terra sembra segnato, se non fosse, scrive Wells, per «le cose più piccole che Dio, nella sua infinita saggezza, aveva messo sulla terra», i microbi. L’arma più terribile di cui disponga la natura. Contro di essi tutte le forme di vita terrestri avevano acquisito la capacità di resistere, gli invasori no.

Il dilemma posto da Wells è chiaro, anche se celato da un lieto fine che nasconde solo in parte la consapevolezza – molto chiara nello scrittore inglese ed esposta in altre sue opere – dei rischi di uno sviluppo tecnologico esasperato, tale da avvicinare l’umanità all’autodistruzione: un progresso, è il caso di dirlo, “contronatura”.

Gli uomini del nostro tempo, sulla strada di diventare tutori e vittime dell’iperteconologia, hanno oggi drammaticamente a che fare con la forma di vita più diffusa e più piccola della terra. Ogni conclusione apocalittica sarebbe fuori luogo, scienza e tecnica non sono nostri nemici, come da sempre proclama un importante filone del pensiero utopico (lo stesso Wells, autore nel 1905 dell’ottimistico Un’utopia moderna, vero atto di fede nella scienza); da chiedersi piuttosto se tecnica, scienza e ricerca non debbano mirare a finalità diverse da quelle del solo sviluppo economico, così ben espresso nel mito della “crescita”. Potremo, rivalutando altri principi di civiltà e differenti indirizzi di progresso, riconciliarci invece con la natura e con quella sua saggia imprevedibilità di cui in questi giorni vediamo la faccia terribile?