Belgrado 68

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di Pierluigi Sabatti

 

 

Il ’68 in Jugoslavia durò una settimana, dal 2 al 9 giugno. Poi se ne parlò, bisbigliando, per vent’anni e finalmente, negli Anni Ottanta, quando la Jugoslavia è attraversata da “un’esplosione di verità” l’argomento tabù viene trattato, come Goli Otok, Bleiburg e i crimini del titoismo, ma appena nel 2012 lo studio dello storico croato Hrvoje Klasić permette di collocare la settimana di lotta degli studenti nel contesto jugoslavo e internazionale.

A scatenare la protesta studentesca a Belgrado più che la guerra nel Vietnam fu la fame, come rileva Nicole Janigro nel suo valido contributo al volume di Guido Crainz Il sessantotto sequestrato (editore Donzelli), che si occupa di quanto accadde ad Est cinquant’anni fa. La miccia furono le condizioni inaccettabili in cui erano costretti a vivere i ragazzi che studiavano nella capitale federativa: mense di pessima qualità e alloggi fatiscenti e superaffollati. Da notare che nell’anno accademico 1967/68 la Jugoslavia era il terzo Paese al mondo, dopo Stati Uniti e Unione Sovietica, come numero di iscritti agli atenei in rapporto alla popolazione: oltre 200 mila, dei quali soltanto un quinto poteva contare su borse di studio statali.

La rivolta parte da Novi Beograd, periferia della capitale, dove i seimila della cittadella universitaria si barricano nei dormitori e fronteggiano la polizia gettando masserizie. L’assedio dura tre giorni, gli studenti tentano un corteo verso il centro della capitale, la repressione è violentissima specialmente contro le ragazze, insultate e malmenate da poliziotti che vengono dalle campagne e godono a maltrattare la gente di città, l’eterna contrapposizione si manifesta ancora una volta. Bilancio pesante: 169 feriti, dei quali 21 miliziani.

Oltre alla protesta per le loro condizioni, gli studenti ovviamente solidarizzano con i vietnamiti, teniamo presente che a Belgrado la colonia universitaria è anche corroborata da studenti del terzo mondo, africani e asiatici, che il governo di Tito foraggia, come Paese leader dei “Non allineati”. Poi solidarizzano con gli studenti polacchi, i quali nel marzo di quel fatidico anno, capeggiati da Adam Michnik, avevano chiesto più democrazia e la fine della censura. Lo sparuto gruppo viene represso con brutalità e si scatena una campagna autoritaria e antisemita, Michnik è ebreo e le autorità polacche non si lasciano scappare l’occasione. La protesta era nata spontaneamente per opporsi alla censura di uno spettacolo di un altro ebreo Adam Mickiewicz, uno dei numi della letteratura polacca. Il movimento non era nemmeno iniziato che già la metà dei sui membri erano in carcere. Mickiewicz viene cacciato dall’università. Sebbene quella primavera 1968, cominciata a Praga e diffusasi in tutto il mondo, non avrebbe dato i frutti sognati, anzi avrebbe visto la riduzione delle libertà e l’inasprirsi dei regimi, si forma allora un nucleo di uomini d’azione e di pensiero che avrebbero più tardi liberato la Polonia dal comunismo. Se il marzo 1968 si conclude con una sconfitta, da questa si gettano i germi di Solidarnosc.

Ma torniamo a Belgrado. Gli studenti continuano agguerriti, sono riuniti in assemblee permanenti e hanno l’appoggio di molti intellettuali. Invitato dagli studenti, l’attore Stevo Žigon legge la famosa pièce La morte di Danton di Buchner interpreta un Robespierre, spietato quanto onesto, declamando, tra gli applausi: «[…] mentre guardiamo come questi marchesi e conti della rivoluzione giocano d’azzardo, mentre li guardiamo, con pieno diritto possiamo domandarci se sono loro i saccheggiatori del popolo […]! Non c’è accordo, non c’è pace con gli uomini per i quali la Repubblica è una speculazione e la Rivoluzione un mestiere!». Il riferimento è chiaro alla burocrazia di regime ai tecnocrati delle imprese, la “nuova classe” che Milovan Gilas, già braccio destro di Tito e uno degli attori principali della resistenza jugoslava, aveva criticato undici anni prima. Gilas venne estromesso da tutte le cariche e finì pure in prigione.

Bogdan Bogdanović, architetto, autore del monumento a Jasenovac, e, negli anni ’90 sindaco di Belgrado, cacciato dagli uomini di Slobodan Milošević, ricorda di quella temperie: «I nostri studenti sono contagiosi, tutti quelli che in questi giorni sono stati con loro hanno vissuto profonde trasformazioni personali. Una questione di coscienza è aperta per tutti, per la società nel siuo complesso».

Ma se i professori si uniscono ai ragazzi (e alcuni ne subiranno le conseguenze negli anni successivi con la cacciata dall’insegnamento), gli operai condannano la rivolta, nonostante gli studenti abbiano cercato di “agganciarli”, ma intorno alle fabbriche viene creato un cordone sanitario di polizia per evitare pericolosi contatti.

Non bisogna pensare che gli studenti jugoslavi protestassero contro il regime, anzi, oggi li considereremmo conservatori perché loro vogliono la realizzazione del comunismo, quello che contestano sono le riforme economiche, quelle riforme degli Anni Sessanta (varate nel Plenun di Brioni del ’66) hanno trasformato la società jugoslava. Ma sono riforme calate dall’alto e confuse che, per dirla in soldoni, tentano di far convivere sistema comunista, autogestione ed elementi del capitalismo. Riforme in parte abortite che provocano l’esodo di oltre 400 mila lavoratori “temporaneamente”, dicono le autorità, fuori dal Paese, afflitto dalla disoccupazione. Ma che creano d’altra parte la “nuova classe”.

È questo il contesto in cui i giovani di Belgrado e, timidamente, di altre capitali jugoslave, Zagabria, Sarajevo e Lubiana, sia pure con atteggiamenti diversi perché emergono anche pulsioni nazionaliste, chiedono il cambiamento in senso più comunista della società: «Meglio un pugno di riso al giorno per tutti che un cucchiaino di caviale per pochi».

Il 9 giugno, invocato dagli studenti, Tito, le cui gigantografie campeggiano accanto a Marx nei cortei, si fa vivo. Parla alla televisione. Con toni assai convincenti da buon padre di famiglia, condanna gli eccessi della polizia e promette di occuparsi personalmente dei problemi sollevati dagli studenti. E aggiunge: «Se non sono capace di risolverli, non posso rimanere al mio posto». In realtà fuori onda le sue parole sono ben diverse se non ostili. Gli studenti, entusiasti, ritornano alle loro attività. Si preparano agli esami, come aveva consigliato paternamente il Maresciallo, sottolineando che il novanta per cento di loro erano “brave persone”. La gioia degli studenti è breve, la loro non è una vittoria. Si discuterà ancora nell’estate alla scuola estiva di Curzola, legata alla rivista Praxis, dove si riuniscono intellettuali dell’Est e dell’Ovest, uno scambio che nutre, rileva Nicole Janigro, la “nuova sinistra” jugoslava, influenzata dai simposi che conducono Bloch e Morin, Fromm e Habermas, Godmann e Marcuse, da quell’”autocritica del socialismo” che portano da Varsavia, Praga e Budapest Kolakovski, Kosik e Lukacs. E nell’estate del ’68 il tema è “Marx e la rivoluzione”. A Curzola arrivano studenti e professori jugoslavi e stranieri e Marcuse infiammerà gli animi convinto «che il risveglio della coscienza rivoluzionaria appartiene ora all’intellighenzia e al movimento studentesco».

Poi scatta la repressione: vengono chiuse le riviste Praxis e Student, vengono cacciati dagli atenei e dal partito i riformatori, rei di fomentare il caos. L’anno seguente gli studenti, compreso l’inganno, ricominciano a protestare elaborando un documento detto delle “Tremila parole” (echeggiando quello praghese), ma rimangono isolati mentre piovono arresti e denunce.

Poi sul ’68 cala il silenzio, anzi cominciano “vent’anni di bisbigli” chiosa ironicamente la Janigro. Nel 1970 arriva la “primavera croata” alla quale prendono parte intellettuali e anche membri del partito. Si parte dal riconoscimento della lingua croata per chiedere una maggiore autonomia economica e politica delle repubbliche, sotto traccia le connotazioni nazionaliste sono sempre più forti.

Le gerarchie del partito a livello federale si dimostrano in un primo tempo distaccate perché l’autorità di Tito non era messa in discussione né criticata. Però generali e servizi segreti fanno pressione per un intervento diretto contro quella che viene vista come una minaccia per l’unità della Jugoslavia. Il 29 novembre 1971 Tito interviene: fa dimettere tutto il vertice del partito comunista croato, sostituendolo con persone più fedeli alla linea politica e interrompendo di fatto il processo di liberalizzazione. A fine maggio del 1972 si contano 550 arresti e circa 2000 condanne.

Dalla ”primavera croata” che era stata in parte condivisa dagli sloveni nasce la Costituzione del 1974, dove si riconosce una maggiore autonomia politica alle singole repubbliche, che sarà effettiva solo nella seconda metà degli anni Ottanta, dopo la morte di Tito.

Una Costituzione che getta le basi della futura tragedia perché nell’ambito delle riforme si riconosce alle singole repubbliche una considerevole autonomia finanziaria, che acuisce il solco tra zone sviluppate e zone depresse della Federativa, e la formazione delle milizie territoriali che saranno i futuri eserciti delle singole repubbliche. La dissoluzione comincerà nel 1980 con la morte del Maresciallo e finirà in una infinita carneficina. Questo “dopo” sanguinoso condiziona, avverte Janigro, l’analisi su quegli anni che rischia di essere interpretata con «l’emotività della jugonostalgia e di essere sovradeterminata da quanto accadrà poi».