Oscar, il jazzista pittore

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Nel centenario di Alida Valli un “cameo” del suo primo marito

di Roberto Curci

Viviamo e ci pasciamo – golosamente, si direbbe – di centenari, cinquantenari, trentennali e, mal che vada, ventennali. Non c’è anniversario tondo che sfugga ai pochi giornali e ai pochissimi rotocalchi che ancora faticosamente reggono. Per cui capita di leggere, sotto varie testate, gli stessi tardivi “obituaries” di personaggi insigni o eventi memorabili del tempo che fu, quasi mai rivelatori di inconfessabili segreti del poveretto o della poveretta rievocati solo perché nati o morti nel 1921 o nel 1971 o addirittura nei remoti 1821(Napoleone, e già!) e 1871 (e giù rivisitazioni di ciò che fu veramente la Comune di Parigi).

Ci hanno francamente annoiato i servizi dedicati ad Alida Valli, nata appunto a Pola nel 1921, ma confessiamo di attendere con una certa curiosità il documentario Anita di Mimmo Verdesca, forse in realtà già visto da molti al momento di andare in macchina (come si diceva un tempo) con questo numero del Ponte rosso. Quello che, poi, ci disturba nella ricostruzione della sua vita è il fugace, sbrigativo accenno a colui che fu il suo primo marito, Oscar de Mejo, definito un musicista, oppure un jazzista, ovvero un compositore, oltre che padre dei suoi due figli, Carlo e Larry

Nato a Trieste nel 1911 (toh, un anniversario), rampollo di ottima famiglia borghese con grande abitazione in via Nuova (oggi Mazzini), cugino di Leonor Fini, de Mejo fu effettivamente, negli anni Trenta, un eccellente pianista, tra i pionieri di quello che all’epoca, fascismo permettendo, veniva italianizzato in giazzo. Chi scrive qui ne ha già scritto largamente altrove, ma vale la pena di resuscitare la figura di quest’uomo civilissimo e di grande cultura, oltre che di bell’aspetto, e di rendergli quel che gli è dovuto.

A Trieste egli rimase assai legato, e fino alla morte, nel 1992 sognò che la città natale gli dedicasse una congrua mostra, come già avevano fatto Milano, Monaco, Londra, Parigi, Nizza ecc. ecc.. Una mostra? Ma di che?, si chiederanno giustamente  i lettori ignari. Il fatto è che Oscar de Mejo, dopo essere stato musicista, jazzista eccetera, divenne – forse con sua stessa sorpresa – pittore: un ottimo, originalissimo, sorprendente pittore, che si conquistò vasta stima e reputazione oltre oceano.

Andò così. Alida era stata chiamata a Hollywood in grazia della fama acquisita in patria come attrice squisita, ma dopo pochi anni, e nonostante alcuni film di successo (Il caso Paradine, per dirne uno), si stufò dell’America, ruppe il contratto col produttore David O. Selznick, il che le costò un’astronomica penale, e tornò in Italia col figlio Carlo, che voleva seguire le orme materne, mentre il marito rimase negli States con l’altro figlio, che voleva invece diventare musicista. Una scissione fifty-fifty, dunque, e neppure traumatica. L’amichevole divorzio avvenne nel  1953, dopodiché Oscar risposò una bella ballerina coloured, Dorothy Graham, e si gettò anima e corpo nel suo nuovo mestiere.

Ne uscirono, in quarant’anni, libri su libri, album su album, in uno stile che fu correttamente definito naif-surrealist, per i tratti “primitivi” e al contempo onirici della sua pittura, di cui de Mejo stesso, più che al Doganiere Rousseau, cui pure è vagamente accostabile, si dichiarò debitore del Sassetta, dei giotteschi, della pittura italiana del Trecento, tanto “improbabile” quanto le sue rievocazioni della Rivoluzione americana (la storia degli Usa lo conquistò invasivamente) o degli incontri sportivi di boxe o di basket (un omaggio toccò agli Harlem Globetrotters) o di scene sentimentali di coppia depurate di ogni svenevolezza e rese anzi con un tratto quasi caricaturale.

Le sue donnone dalle gonne lunghissime e amplissime divennero un’icona dell’immaginario collettivo, le sue battaglie all’arma bianca contro gli inglesi furono oggetto di contesa tra collezionisti. De Mejo, in effetti, con la reinvenzione di sé stesso, si conquistò assai vasta popolarità: gli dedicarono ampio spazio, ricco di riproduzioni, riviste autorevoli come Art Today o come The Yale Literary Magazine, in cui rievocò la propria infanzia triestina e sulla cui copertina campeggia una scena di skating collettivo che par richiamare una scena analoga – ma quanto più lugubre – di un disegnatore quale Edward Gorey.

Nei quadri di de Mejo, coloratissimi, trionfa sempre una vena di allegria non esente dall’occhiata ironica di un artista che palesemente, e anzitutto, si diverte di gusto nel dar vita alle proprie creazioni. Memorabili sono le sue ricostruzioni storiche contenute in volumi quali My America, con introduzione di Gillo Dorfles, o Fresh Views of the American Revolution. Ma parecchi furono anche i suoi lavori dedicati all’infanzia, con autentici colpi di arguta e accattivante semplicità, come nell’Alfabeto dedicato ai rotten Kids (i bambini … marci), dedicato peraltro «to all the good children in the world».

Oscar dunque amava profondamente l’America (la terra del jazz!) in cui era sbarcato nel 1947 e si sentiva decisamente americano. Ma al contempo non rinnegava, tutt’altro, le proprie radici. Una sua rimpatriata triestina, in cui portò la moglie Dorothy a vedere, da fuori, la casa in cui era cresciuto, ebbe perfino momenti di commozione. Anche perciò ci teneva che la città lo ricordasse con una rassegna, che non gli fu mai concessa.

E la musica? Non la rinnegò mai, tanto che fra le curiosità della sua “seconda vita” figura la firma che appose a una canzoncina divenuta assai popolare negli Usa, che si intitolava Bela bimba e che poi non era che la versione americana della Villanella, il brano di anonimo divenuto endemico, in Italia, in balli e sagre dai primi del ‘900. «Ma come balli bene, bella bimba…». Proprio quello. Stavolta però Oscar barò alla grande: e si intestò il brano come fosse musica sua, su versi di tale Marilou Harrington. La cantò perfino Dean Martin (il cui vero nome, del resto, era Dino Crocetti)…

 

Oscar de Mejo

The General and the Seamstress. 1776

Aberbach Fine Art, New York