DIECI ANNI NON FACILI

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Ernè e Sabatti ripercorrono assieme gli anni ’70 a Trieste

di Walter Chiereghin

 

Oltre duecento fotografie scattate da Claudio Ernè e il testo che le accompagna, curato dallo stesso Ernè assieme a Pierluigi Sabatti descrivono, con competente accuratezza la storia di Trieste nel settimo decennio del secolo scorso, negli anni in cui entrambi i giornalisti stavano ad osservare e a documentare le vicende del mondo e della città dall’osservatorio in qualche modo privilegiato della loro condizione di cronisti, Erné allora soprattutto fotoreporter free-lance, come oggi si dice, mentre Sabatti percorreva i primi passi della professione giornalistica che avrebbe poi visto entrambi cronisti di punta del Piccolo.

Gli anni Settanta, dunque, visti da quassù, una periferia allora liminale dell’Occidente dove si sarebbero prodotti in quegli anni anche eventi e fenomeni che avrebbero trasceso di molto gli angusti confini della provincia.

La storia di quel decennio – nel mondo – era iniziata due anni prima, quando, senza troppi segni premonitori, pareva si fosse prodotta ante litteram una prima globalizzazione, quella della contestazione, che fece scricchiolare sistemi politici, assetti sociali, concezioni culturali, ordinamenti legislativi anche diversissimi tra loro, quasi in ogni angolo del pianeta. Quanto veniva messo in crisi da quel movimento, anzi dalla pluralità di quei movimenti era, in quasi tutte le declinazioni che il fenomeno assunse, il principio di autorità. Le autorità accademiche a Berkeley come quelle di Parigi, di Amburgo o di Roma, le nomenklature politiche di Praga e di Pechino, dove, sollecitate dallo stesso Mao, le Guardie rosse già da un paio d’anni avevano dato corpo alla rivoluzione culturale. Persino alle Olimpiadi di Città del Messico Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo nella finale dei 200 metri, sollevarono il pugno chiuso in un guanto nero mentre suonava l’inno nazionale che i due ascoltarono a testa bassa, in opposizione a un sistema sociale che vedeva ancora fortemente discriminati gli uomini di colore.

Si trattava, ovunque, di movimenti nati tra i giovani, in particolare tra gli studenti, cui si unirono ben presto gli operai, sì da dar corpo a prospettive di crescita civile e sociale che allettavano alcuni e allarmavano altri, al punto che la reazione non si fece attendere, con le imponenti manifestazioni della cosiddetta “maggioranza silenziosa” a Parigi, a sostegno di De Gaulle, o, più atrocemente, con i carri armati del Patto di Varsavia che invasero la Cecoslovacchia per soffocare la Primavera di Praga.

Da noi, in Italia, la reazione ai moti studenteschi del ’68 e all’autunno caldo operaio dell’anno successivo assunse un carattere non altrettanto esplicito, ma preferì concretarsi in forme di più oscure trame, a partire da eclatanti azioni criminali tuttora non completamente chiarite che insanguinarono il Paese, dalla strage di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 in avanti, con depistaggi nelle indagini, coinvolgimenti di schegge dei servizi segreti, gruppuscoli clandestini e logge massoniche deviate. Da tali scelte scellerate e violente discese un lungo insanguinato periodo che, attraversando tutto il decennio, segnò un’anomalia tutta italiana cui si contrappose, alle opzioni più estremiste, il tentativo della società civile di resistere all’interno di una visione democratica, che seppe dare i suoi frutti anche largamente positivi in termini di accrescimento dei diritti.

Pensiamo allo Statuto dei lavoratori, per esempio, la legge 300 promulgata il 20 maggio del 1970, della quale, come osservano gli autori del volume, “oggi un sedicente «centrosinistra» ha eroso prima lo spirito, poi il cuore del provvedimento”.

Ma seguiamo il filo della narrazione, parzialmente per immagini, che ci viene proposto da Ernè e Sabatti, e addentriamoci quindi nel grande affresco che hanno saputo proporre, rimanendo più ancorati al contenuto “triestino” del volume.

La società triestina si presentò all’appuntamento con il decennio in condizioni di palese declino, abbandonati ormai i sogni di una “Grande Trieste”, accarezzata dai sindaci Bartoli e Franzil, la città si ritrovò, al contrario di quanto avveniva nel resto d’Italia, a perdere anziché aumentare gli abitanti ad ogni anno che passava, mentre aumentava percentualmente la presenza dei pensionati e degli anziani, anch’essa in proporzioni maggiori che nel resto del Paese. La deindustrializzazione che aveva avuto i suoi prodromi fin dal 1966, quando fu deciso nell’ambito del Piano CIPE la chiusura del Cantiere San Marco, solo parzialmente compensata dalla sede e direzione dell’Italcantieri, accompagnata dall’assenza di un tessuto di medie e piccole imprese contribuì a rendere problematico l’accesso al lavoro e modificò ulteriormente l’assetto sociale della città, che intanto veniva modificandosi anche nella sua struttura urbanistica, connotata da nuove opere pubbliche (il Palasport di Chiarbola, incompiuto per quanto attiene alle piscine, il cantiere eterno dell’ospedale di Cattinara, la demolizione quasi proditoria della Casa del Ferroviere in Viale Miramare, l’edificazione di Rozzol Melara, esperimento parzialmente riuscito di edilizia sociale, la conclusione dei lavori per la costruzione di Borgo San Sergio), mentre in altre aree urbane, soprattutto Città Vecchia, si lasciava fare a un crescente degrado che portò, fatalmente, all’abbandono da parte degli abitanti, costretti a trasferirsi in aree periferiche.

E poi l’aspetto antropologico, la capitale mondiale dei jeans, dove si sono accumulate e spesso dilapidate fortune commerciali di ambulanti e piccoli negozianti il cui pubblico, dalle bancarelle del Ponte rosso, si estendeva dalla vicina Jugoslavia a coprie un’area commerciale sterminata che raggiungeva sempre più in profondità i Paesi dell’est europeo e anche asiatico. E ancora: la fine dei collegamenti marittimi per passeggeri con l’ultimo staccarsi dall’ormeggio della Stazione Marittima, il 14 marzo del 1974, del transatlantico “Cristoforo Colombo” che, dopo aver soppiantato “Vulcania” e “Saturnia”, affrontò la sua ultima traversata atlantica per raggiungere le Americhe.

Non mancano i collegamenti con la grande Storia che si sono manifestati a Trieste. Il 4 agosto 1972, alle 3.15 del mattino, un commando di terroristi palestinesi di Settembre Nero fanno saltare con l’uso di esplosivi tre enormi serbatoi pieni di greggio della Siot, la Società italiana per l’Oleodotto Transalpino, sul territorio tra i comuni di Muggia e di San Dorligo. Il fumo che si leva dai giganti feriti oscurerà parzialmente il sole d’agosto per due giorni e solo l’abnegazione dei vigili del fuoco accorsi anche dal Friuli, dal Veneto e dall’Emilia riuscì a contenere i danni di quella che avrebbe potuto essere una catastrofe inimmaginabile. Un mese dopo, la stessa organizzazione terroristica “firmò” la strage alle Olimpiadi di Monaco, in cui rimasero uccisi undici atleti israeliani e un poliziotto tedesco, oltre a cinque terroristi.

Un’altra volta la Storia è venuta a bussare alle porte di Trieste, stavolta per i crimini contro l’umanità perpetrati in città tra il gennaio del 1944 e la fine di aprile del 1945 alla Risiera di San Sabba. Soltanto nel 1976, più di trent’anni dopo i fatti, è stato possibile dar luogo al processo della Corte d’Assise di Trieste, superando reticenze e negazionismi. Dei due imputati, cittadini tedeschi, uno morì in libertà durante il processo, l’altro, il birraio di Monaco Joseph Oberhauser, condannato all’ergastolo in contumacia, non fu mai consegnato alla giustizia dalle autorità del suo Paese.

Il volume di Ernè e Sabatti, del quale l’editore Comunicarte annuncia già una seconda edizione ampliata, raduna inoltre immagini e note dei protagonisti di quegli anni nella politica locale (Vittorio Vidali, i sindaci Marcello Spaccini e Manlio Cecovini, il socialista Arnaldo Pittoni, per dire solo di alcuni), nell’ambito letterario (Tomizza, Voghera, Cergoly, Magris, Mattioni), in quello artistico (Dorfles, Černigoj, Bressanutti, Mascherini, Spacal, Guarino, la Gombacci e Marino Cassetti, colto in un magnifico ritratto en plein air in Piazza Unità).

Accanto a queste personalità, i volti sconosciuti di migliaia di altri protagonisti, giovani, studenti, attivisti politici impegnati in cortei e manifestazioni, operai in assemblea sindacale, acquirenti d’oltre confine, gente comune colta da un obiettivo anzioso non solo di documentare, ma proprio di narrare per immagini la vita, la calda vita per dirla con Saba, di una città di quanti vi hanno vissuto.

In parte, com’è ovvio, le vicende degli anni Settanta viste da Trieste sono determinate da quanto accadeva altrove, ma in parte hanno assunto connotazioni particolari per la singolare realtà sociale e storica della città e ancora, sotto alcuni profili, hanno anticipato qui tendenze o indicazioni che poi si sono allargate a livello nazionale o addirittura mondiale.

La costituzione e il successo della Lista per Trieste, nata in opposizione al Trattato di Osimo del 1975, ad esempio, indicarono che era possibile ai cittadini organizzarsi anche al di fuori degli schemi ideologici dei partiti tradizionali per costituire liste civiche o movimenti anche di carattere non strettamente legato a un territorio, ponendo alcuni presupposti che in ambito nazionale hanno dato luogo ai successi elettorali della Lega Nord, della Liga Veneta e se vogliamo, più di recente, al Movimento cinque stelle. Qualcuno (o più di qualcuno) potrà osservare che non si tratta di un merito…

Una piccola nicchia in questo precorrere di Trieste situazioni nazionali e sovranazionali è costituita da un doloroso episodio di cronaca, la morte per assideramento avvenuta il 13 ottobre 1973, in una notte di freddo tanto inatteso quanto crudele, di tre giovani africani provenienti dal Mali e approdati in Val Rosandra dopo un viaggio di migliaia di chilometri “a cinque metri da una casa i cui abitanti non capiscono, hanno paura e non aprono la porta in tempo”. Oggi, quotidianamente, i telegiornali ci aggiornano sui migranti che muoiono a centinaia, a migliaia per raggiungere un improbabile Eldorado europeo. Allora, colpiti da quella tragedia, gli abitanti di Sant’Antonio in Bosco si strinsero attorno al fratello sopravissuto di una delle vittime nel piccolo cimitero del paese, offrendogli una busta con un po’ di denaro raccolto e impartendo a noi, che rileggiamo oggi quella breve drammatica storia, una lezione di umanità della quale abbiamo un quotidiano bisogno.

E poi, certo, qualcosa più universalmente noto. Come ricordare la riforma tenacemente voluta da un veneziano visionario, passata alla storia come riforma Basaglia, che ha mosso qui i primi passi di una concezione della salute psichica ormai accettata – anche se non ancora pienamente applicata – in tutto il mondo. L’ultimo capitolo del libro si sofferma proprio sulla rivoluzione operata a San Giovanni, con alcune immagini passate ormai alla storia, a rievocare l’esaltante periodo che confluì nella promulgazione della legge 180, obiettivo che fu conseguito, al di là dei meriti di chi ha dato il nome a tale legge, anche grazie alla direzione politica di un democristiano coraggioso, Michele Zanetti, allora presidente della Provincia, a un gruppo di giovani psichiatri riunito attorno al loro direttore, ad alcuni infermieri ed infermiere che comprendevano di essere tra i protagonisti di un evento epocale e, infine anche a una parte, dapprima piccola e minoritaria, poi sempre più estesa della popolazione di questa città dove per definire un tizio si diceva (e ancora si dice) “un mato”. Noi allora ragazzi che, con qualche titubanza, attraversavamo i cancelli di San Giovanni, magari per andare a sentire un concerto di Gino Paoli o ad assistere a uno spettacolo di Dario Fo e Franca Rame siamo oggi fieri di averlo fatto accanto ai “matti”che iniziavano a godere di una ritrovata libertà e dignità di persone.

Di tutto ciò e di altro ancora danno conto le immagini di Ernè che, assieme al testo scritto con Sabatti, in questo libro che costituisce una sorta di documentario sulle dinamiche che percorrevano la città in quegli anni. Nello scorrere di immagini e commenti, coloro che hanno vissuto quegli anni possono ritrovare figure e situazioni delle quali sono stati testimoni se non attori; gli altri, i più giovani, quelli che ancora non c’erano, potranno rinvenire in Trieste Settanta lacerti di una storia che hanno studiato o che hanno sentito ripetere in casa da genitori, parenti e amici più anziani. Per tutti, il libro costituisce il documento, palpitante di vita, dal quale attingere per una più completa cognizione di quanto qui è avvenuto e dei presupposti di quanto ancora oggi avviene.