8MARZO Autobiografia di un’altra

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Gertrude Stein fu un personaggio monumentale e non solo per la stazza fisica sottolineata da una particolare ineleganza

 «Penso che il suo trucco consista nel ripetere la stessa parola cento volte con connessioni diverse, finché alla fine ne senti la forza» (Virginia Woolf)

di Gabriella Ziani

 

Quando la sua amica femminista Marion Walker le rimproverò di non occuparsi dell’emancipazione femminile, rispose che «non era affar suo». E del resto, possente ed egocentrica, mentore di grandi artisti (Picasso fra tutti), scrittrice di alte ambizioni, lesbica dichiarata, è difficile immaginare come avrebbe potuto sentire l’esigenza di ulteriore emancipazione Gertrude Stein, nata nel 1874 ad Allegheny (Pittsburgh in Pennsylvania), ultima di cinque figli di una benestante famiglia ebrea di origini tedesche, vissuta da bambina per qualche anno a Vienna, Londra e Parigi, poi studentessa di Psicologia sperimentale al Radcliffe College (Harvard) con William James (fratello del grande scrittore Henry), passata poi a studi di medicina interrotti «per noia» prima della laurea e libera di scegliersi una strada nella vita (i genitori morirono quando Gertrude era ancora adolescente).

Legatissima al fratello Leo, studioso e collezionista di arte, nel 1907 si trasferisce da lui a Parigi, condividendo per un periodo passioni e quadri. Secondo le fonti, i due fratelli avevano una rendita di 100-150 dollari al mese provenienti dal fondo  patrimoniale di famiglia, forse non propri pochi per l’epoca. Leo poi se ne va a Firenze, coltivando una grande amicizia con Bernard Berenson. E Gertrude resta regina del salotto-atelier, generosa amica e mecenate di Matisse e Picasso, e a catena di Derain, Gris, Apollinaire, Rousseau, Braque, Marie Laurencin, Hemingway, Roger Fry, Wyndham Lewis, Nancy Cunard, Edith Sitwell e i suoi fratelli, e mille altri che invadono liberamente rue Fleurus 27, dove vive more uxorio con un’altra benestante americana espatriata, Alice B. Toklas, che le fa da segretaria, dattilografa, governante. E intanto, lettrice avida e onnivora, scrive a modo suo, convinta di essere più innovatrice e più in anticipo del suo contemporaneo Joyce.

Gertrude Stein fu un personaggio monumentale e non solo per la stazza fisica sottolineata da una particolare ineleganza (un’estate andò in vacanza in Spagna con un tailleur di velluto marrone a coste, un cappellino di paglia acquistato a Fiesole e sandali): ce la mostrano le foto ma pure il ritratto che le fece nel 1906 il prediletto cubista, il giovane Picasso. A chi gli oppose che non era somigliante, rispose: «Non fa alcuna differenza, più avanti le assomiglierà». Difatti.

Immergersi nell’osservatorio privilegiato di tutta quell’epoca frizzante, ibrida, internazionale e creativa che tra il primo Novecento, il primo dopoguerra e le soglie della seconda guerra mondiale ebbe il proprio epicentro in Parigi ma anche nell’interscambio con l’America, significa attraversare un tempo frenetico che fino agli anni Venti vide in azione la cosiddetta “generazione perduta” (espressione coniata proprio dalla Stein e ripresa da Hemingway in Fiesta e in Festa mobile) alla quale sono da ascrivere Francis Scott Fitzgerald, John Steinbeck, Thomas S. Eliot, John Dos Passos, Sherwood Anderson, Henry Miller, Ezra Pound, lo stesso Hemingway. E assistere all’eruzione di nuovi linguaggi, dal cubismo in pittura al flusso di coscienza in letteratura, quello delicato di Virginia Woolf e quello dissacrante di Joyce fino al nouveau roman francese. E per immergersi ecco, di Gertrude Stein, l’appena ristampato Autobiografia di Alice B. Toklas, uscito nel 1933 e per la prima volta tradotto in Italia da Cesare Pavese per Einaudi nel 1938.

Fu questo libro, pubblicato quando aveva 59 anni, e il cui paradosso è già nel titolo – come può un altro autobiografare qualcuno? – , a procurare per la prima volta fama e soldi a questa «amica di geni», visto che i precedenti libri – Three lives, The making of americans, Tender buttons… – erano stati rifiutati, stampati in proprio, o su riviste sperimentali come la Transition di Eugene Jolas prima di trovare un editore. E si capisce perché, se ancora nel 1947 quando uscì la prima traduzione italiana di Ida il traduttore Giorgio Monicelli scriveva che il lettore tradizionalista «scaglierà il libro fuor dalla finestra», essendo la Stein «quel che si dice un’estremista dell’espressione letteraria, una sovversiva nell’accezione più completa del termine» (cfr. Ida, Oscar Mondadori, Milano, 1979).

La stessa Woolf, che incontrò Gertrude una sola volta nel 1926 in occasione di una conferenza della Stein a Cambridge e a Oxford, nel 1925 in una lettera all’amica-amante Vita Sackville-West aveva scritto: «Penso che il suo trucco consista nel ripetere la stessa parola cento volte con connessioni diverse, finché alla fine ne senti la forza». Ma la casa editrice dei Woolf, la Hogarth Press, che già aveva rifiutato The making of Americans, nel novembre di quello stesso 1926 pubblicherà tuttavia il testo di quella conferenza, Composition as Explanation, un’originale e provocatoria dichiarazione di poetica, in cui la scrittrice tra l’altro afferma: «I veri creatori di un’opera moderna naturalmente acquistano importanza solo quando sono morti, perché a quel tempo l’opera moderna, divenuta passato, viene classificata e la sua descrizione è classica» (cfr. la biografia di James R. Mellow, Cerchio magico, Milano, Garzanti, 1978). Anche del fluviale The making of Americans, 1000 pagine e 565 mila parole in origine, nato come storia della famiglia, scritto tra il 1903 e il 1911 e infine pubblicato a Parigi nel 1925 in sole 500 copie, la Stein spiega nell’Autobiografia i gli ambiziosi intenti: «Era passata dall’essere una storia di una certa famiglia a essere una storia di tutte le persone che frequentavano quella famiglia per poi divenire la storia di ogni genere e di ogni essere umano individuale». Il ritratto del genere umano – utilizzando gli studi di psicologia – sarà un’altra delle sue imprese, a partire dall’azzardato Ada del 1910 che ritrae la Toklas: «Questo fu l’esordio di una lunga serie di ritratti. In pratica ha scritto ritratti di tutte le persone che ha conosciuto e li ha scritti in tutte le maniere e in tutti gli stili».

Dunque la Stein, che Fernanda Pivano ha definito “anarchica programmata”, si era data a raccontare con un punto di vista psicologico, non ottocentescamente logico e biologico, disgregando il tempo e il luogo, di conseguenza forzando lo stile narrativo fino ai limiti di una sorta di controllata follia dove anche la punteggiatura declina fino a scomparire. Per questo, come nota nella prefazione al volume Marzia Capannolo, Picasso restò per lei «la potenza primigenia e destrutturante dell’Arte […]. Come i testi della Stein privi di corsivi e virgolettati, senza punti interrogativi, stilisticamente controversi, ma efficacissimi nell’ammaliare il lettore nel sortilegio della sua prosa anticonvenzionale, i dipinti cubisti di Picasso spostano lo sguardo lungo le traiettorie multiple che si rivelano simultaneamente davanti agli occhi dell’osservatore». Nel suo “stile-ammazza stili”, la caratteristica più evidente è la tendenza a replicare l’idea e la frase. Anche chi non l’hai mai letta avrà orecchiato quel famoso «una rosa è una rosa è una rosa», che la Toklas dice – sempre con la penna dell’amica – di aver scoperto in un  manoscritto, e – scrive – «insistetti affinché lo inserisse come un motto sulla sua carta da lettere, sulle tovaglie e ovunque lei consentisse a farlo mettere».

Ma non è questo il caso dell’Autobiografia di Alice che delle volate sperimentali conserva solo un ritmo ondeggiante e una speciale vena ironica. Che è già nell’assunto: se Gertrude fa tutto da sé, si sorride quando la (presunta) Toklas  confida: «I tre geni di cui vorrei parlare sono Gertrude Stein, Pablo Picasso e Alfred Whitehead». E anche: « Si rende conto di essere unica nella letteratura inglese della sua epoca. Lo ha sempre saputo e adesso lo ammette anche». Lo ribadì poi nell’Autobiografia di tutti (1937, tradotto nel 1976 dalla Tartaruga e ristampato nel 2017 da Nottetempo), che è una continuazione e descrive il dopo, gli anni del grande successo, riannodando anche i fili col passato: «Mi accorgevo che ero un genio».

Dunque tutto il memoir è filtrato dietro una finta ma complice identità, usando uno schermo vivente e pure convivente e connivente. Così la Stein si costruisce da sé il monumento. La seguiamo fra artisti, cene, viaggi e vacanze, editori e riviste, feste bohémienne o mirabolanti, nei salon e nelle gallerie d’arte, a comprar quadri, mobili, oggetti, nei difficili anni della Prima guerra mondiale, e in quelli ancora più pericolosi della seconda quando, ebrea lei ed ebrea Alice, entrambe corsero il rischio di finire in mani tedesche, ma si rifiutarono di scappare. La Stein morirà nel 1946, lasciando anche romanzi polizieschi, drammi, saggi, testi per bambini.

Quanto proprio alla donnina che fu la sua ombra, era nata a San Francisco in California nel 1877, da padre di origini polacche, era una signorina ben istruita e dedita a svaghi, ricami e giardinaggio quando conobbe Leo Stein e sua moglie rientrati da Parigi nel 1906 dopo il tragico terremoto di San Francisco. Avevano con sé «tre piccoli dipinti di Matisse – rievoca la Stein-Toklas -, le prime opere moderne ad attraversare l’Atlantico». Affascinata,  decise di trasferirsi a Parigi. Trovata Gertrude, il sodalizio sarebbe durato per la vita. Secondo quanto racconta la sua biografa Linda Simon (The biography of Alice B. Toklas, University of Nebraska Press,  1991) quando la scrittrice le chiese di farsi “moglie”, Alice avrebbe pianto di emozione fino a sciupare una trentina di fazzoletti.

Sopravvisse per 21 anni alla sua compagna, abbastanza in miseria dopo una vita così vorticosa e affascinante, e l’unica cosa che scrisse, sollecitata dagli amici, è Il libro di cucina di Alice B. Toklas uscito in America nel 1954 (edito in Italia nel 1979 dalla Tartaruga, e col titolo I biscotti di Baudelaire. Il libro di cucina di Alice B. Toklas da Bollati Boringhieri nel 2016), ironica cronaca di vita – questa sì scritta in proprio – oltre che perfetto ricettario tratto dalle agende delle cuoche di casa Stein, e dalle cucine degli amici. Avendole chiesto l’editore di allungare il testo, aveva aggiunto il “Dolce allo hashish (ottimo per le giornate di pioggia)”. Nacque un putiferio, Alice si disperò. Tutti avrebbero potuto sospettare che “il genio”, poiché scriveva nel modo che sappiamo, avesse usato la penna sotto l’effetto di droghe.

Nella finta autobiografia Gertrude le fa dire: «Circa sei settimane fa Gertude Stein mi ha detto, non mi pare proprio che tu abbia intenzione di scrivere quella famosa autobiografia. Sai allora che cosa sto per fare. Ho intenzione di scriverla io in vece tua. […] E così l’ha scritta ed è appunto questa». E così il libro finisce. Buon divertimento.

 

 

Gertrude Stein

Autobiografia di Alice B. Toklas

Traduzione di Massimo Scorsone

prefazione di Marzia Capannolo

Lindau, Torino, 2020

  1. 356, euro 26,00

 

 

Fig. 1:

Pablo Picasso

Gertrude Stein

olio su tela, 1906

New York, Metropolitan

Museum of Art

Lascito di Gertrude Stein, 1946

 

Fig. 2

Man Ray

Gertrude Stein with her

portrait by Picasso

Stampa fotografica,1922

 

Fig. 3

Gertrude Stein e

Alice B. Toklas

Stampa fotografica, 1934