Le due età di Mary B. Tolusso

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Una felice prova narrativa: L’esercizio del distacco, il nuovo romanzo di Mary Barbara Tolusso

di Walter Chiereghin

 

Un rapporto con la scrittura che all’apparenza risulta facile quello di Mary Barbara Tolusso, a iniziare dalla versatilità con la quale si esercita in ambito poetico, narrativo, saggistico, giornalistico e, non da ultimo, nel suo quotidiano confrontarsi con i social network dove, seguitissima, sforna con alacrità post divertenti e irriverenti, a volte persino respingenti e irritanti, ma sempre connotati da una vivida vena ironica e auto-ironica e comunque il più delle volte scevri da ogni conformismo, com’era stato per la prosa fresca, disinibita e trasgressiva del suo primo romanzo, L’imbalsamatrice (Gaffi, Roma 2010).

Ora, otto anni dopo quel libro, la scrittrice pubblica un altro impegnativo testo narrativo, del tutto differente dai toni, dalle situazioni e dallo stile che avevano contraddistinto quel suo esordio. Si tratta di un altro romanzo, L’esercizio del distacco, una storia della quale una prima parte mette in scena adolescenze vissute in un collegio elitario dove i convittori, ragazzi e ragazze di famiglie facoltose e sovente distratte, vengono preparati con cura a una vita di prevedibili successi, mentre nella seconda parte la protagonista, ormai adulta, si trova a fare i conti con quella sua precedente età, ripensandola e, in certo senso, affrancandosene.

Ma andiamo con ordine, cominciando dall’inizio. Anzi, cominciando da prima dell’inizio, con la copertina del volume, sulla cui prima pagina campeggia l’accattivante immagine di un adolescente su cui si posano variopinte farfalle (i lepidotteri compariranno più volte nel romanzo). Il ragazzo dell’emozionante fotografia in copertina si chiama – per la cronaca – Timothy ed è il fratello minore nonché soggetto preferito della fotografa Maria McGinley, che mediante i suoi scatti in gran parte dedicati al ragazzino ha ritenuto di fissarne per sempre l’immagine, in una contesa inane contro il tempo che trascorre inesorabile per tutti, anche per i giovanissimi. Per quanto il lettore, una volta aperto il libro, non mancherà di leggervi, la copertina, dunque, ne costituisce sostanzialmente una sorta di prefazione per immagini.

Lasciando tuttavia il paratesto, ecco che il romanzo, fin dall’incipit, cattura immediatamente l’attenzione del lettore: «Tutti hanno vissuto ore fatte di una felicità assoluta, alla quale non si dovrebbe sopravvivere».

Per quanto è riassuntiva del contenuto che seguirà, la prima frase ricorda la protasi con la quale iniziano i poemi epici e cavallereschi (narrami o diva del pelide Achille l’ira funesta, oppure le donne, i cavallier, l’arme, gli amori). In senso ovviamente più lato, la proposizione si qualifica come il presentimento di quanto la Tolusso si accinge a raccontare. E quindi, con la frase successiva, «Quando mia madre mi abbandonò davanti al portone del collegio avevo quattordici anni», entrando immediatamente nel vivo, inizia la narrazione vera e propria, la storia di una quattordicenne abbandonata in un collegio da una madre che, rimessa in moto la macchina, si allontana. Un distacco, dunque, il primo dell’avvincente trama che qui prende avvio.

Il romanzo è strutturato in due parti, la prima delle quali descrive, in prima persona, gli anni brevi e felici di un’adolescenza vissuta nel collegio e condivisa con intensità dalla voce narrante (che solo molto più in là si presenterà con nome e cognome: Sofia Foscarini) con due compagni di studio: la rasserenante Emma, sempre disposta a un accogliente sorriso, e il bellissimo David, che «sembrava uno con il cuore appuntito» (p. 13). Attorno a loro il collegio elitario che li ospitava, attorno al collegio una città di mare e di confine, più surreale persino dell’attuale Trieste, che non viene peraltro mai citata col suo nome.

Nel terzetto dei ragazzi s’instaurano le dinamiche consuete dell’adolescenza: il legame forte dell’amicizia, la complicità, l’attrazione, l’amore infine, incapace di incanalarsi in una relazione meno effimera, dentro la gabbia dorata entro la quale i protagonisti sono costretti. Anticipando una riflessione che proviene dalla seconda parte del romanzo, è così che la protagonista ripenserà da adulta a quell’intensa età: «A distanza di anni rivedo la loro bellezza, una bellezza che non ho più incontrato. In fondo era la nostra giovinezza. Eravamo vergini. Non c’era alcuna esperienza alle spalle, il fascino di Emma e di David era spontaneo, un dono sincero. Li amavo entrambi» (p. 29).

Naturalmente la condizione di cattività andava stretta alla protagonista: «Eravamo una generazione di raffinati prigionieri in fila per la doccia o per la mensa, con molte regole e molto futuro» (p. 95).

Il futuro è il tempo dominante di quella loro età, al quale l’istituzione intende preparare i rampolli che addestra alla vita, la fase di là da venire cui il presente dei convittori è subordinato e sotto il cui peso è in qualche modo compresso. È anche per questa ragione che Sofia, procuratasi le chiavi di un cancello, esce di notte a cercare fuori dal collegio il proprio presente. Lo troverà in un night club oltre il confine, dove incontra Nicolas, il figlio del proprietario, e si confronta con un universo diverso da quello ovattato in cui lei agisce di giorno. Un ragazzo – fisicamente assai simile a David – sloveno, bilingue, anarchico, che ama musiche di tendenza delle quali lei non sa nulla e delle quali non ha neppure mai sentito il nome, uno che le offre del pollo fritto da mangiare con le mani.

Uno, insomma, agli antipodi del mondo nel quale lei era abituata a muoversi, però sarà proprio lui l’unico superstite che le sarà possibile recuperare da quei suoi anni, dopo il distacco da Emma e da David (che si congederà da lei con un post-it) al compimento del loro ciclo di studi. In Nicolas, che diversi anni più tardi dividerà con lei un suo breve acuminato periodo, ritroverà la concretezza e l’etica nei comportamenti di uno che aveva preferito chiudere il night ereditato dal padre per non trasformarlo in un bordello. Ma siamo ormai nella seconda parte del romanzo, significativamente intitolata Nel tempo, dove una Sofia di trentacinque anni (giunta quindi nel mezzo del cammin di nostra vita), dopo una laurea in materie scientifiche, dopo un matrimonio breve per il decesso del marito, esercitata quindi con completezza ai distacchi, capovolge il senso di marcia della narrazione, cessando di occuparsi dell’incombente, promettente e dilatato futuro della prima parte per volgersi all’indietro, a riconsiderare il luminoso periodo quando i loro «destini erano programmati, destini di buoni propositi che ci apparivano lunghi come l’infinito. Era[no] simili a orologi senza lancette, allora, incapaci di pensare a quanto può essere crudele il tempo» (p. 26).

Il tempo dunque, la sua percezione, costituiscono il nucleo della riflessione che pervade l’intero romanzo, assieme all’identificazione dell’adolescenza come età dell’oro alla quale (ricordate l’incipit) la protagonista è sopravvissuta.

La storia, assieme all’eleganza di una scrittura limpida e pregnante, di rara efficacia, è tale che si chiude con un lieve disagio il volume dopo avervi letto l’ultima pagina, e il riporlo nello scaffale diviene per il lettore un altro, ennesimo, esercizio di distacco.