Das Kaffeehaus

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La bottega del caffè di Goldoni secondo Fassbinder

Adriana Medeot

 

“Ogni volta che due persone s’incontrano e stabiliscono

una relazione, si tratta di vedere chi domina l’altro.”

(R.W.Fassbinder)

 

Di Rainer Wener Fassbinder, irrequieto e trasgressivo enfant prodige del Nuovo Cinema Tedesco degli anni Settanta, morto giovanissimo, trentasettenne (forse per overdose), è nota la torrenziale attività cinematografica – più di trenta lungometraggi, tre cortometraggi e due film televisivi in un arco di poco più di tredici anni – non altrettanto conosciuta la sua opera di autore e regista teatrale, similmente prolifica e iperattiva per quanto maggiormente limitata nel tempo: dopo il 1969 infatti Fassbinder privilegerà la macchina da presa, pur mantenendo un vivo interesse per il teatro.

È risultata pertanto estremamente interessante e stuzzicante la produzione del Teatro Stabile del Friuli-Venezia che dal 1° al 13 novembre ha messo in scena Das Kaffeehaus, riscrittura della Bottega del caffè di Goldoni, secondo la personalissima interpretazione del regista tedesco, datata 1969.

1969: è un anno dopo il 1968 – ovvio, direte voi – ma è importante segnare nel calendario personale della memoria le date che connotano lo spartiacque di forti cambiamenti sociali, e il ’68 questo rappresenta. Il Sessantotto è un po’ come il Quarantotto: c’è un sentire che vaga tra le genti che profuma di desiderio di mutamenti forti. Non è pertanto facile cimentarsi oggi su testi scritti in quel periodo: c’erano grandi illusioni, che non ci sono più; si pensava di poter cambiare il mondo, o perlomeno di rileggerlo secondo nuovi e rivoluzionari punti di vista; le ideologie erano il pane quotidiano: tematiche e humus distanti anni luce dal sentire comune odierno, ma che meritano una riflessione e non un’aprioristica archiviazione.

Infatti, leggendo il copione di Das Kaffeehaus, questo si respira: il Sessantotto. Si possono ritrovare, peraltro, in nuce, tutti i temi e i personaggi che caratterizzano la poetica e il pensiero del più noto Fassbinder cineasta, artista anticonvenzionale, segnato da una storia familiare di abbandono paterno, individualista e provocatorio, figlio ribelle di quegli anni.

Morì giovane, probabilmente di eccessi, ma fu un lucido fruitore delle potenzialità offerte dal sistema dei finanziamenti statali del periodo, realizzando e producendo film con budget ridotto entro i tempi stabiliti. Ha saputo essere popolare nel suo paese, stabilendo un rapporto con il suo pubblico (“Sono un autore tedesco che fa film tedeschi per un pubblico tedesco”), diversamente da Wenders ed Herzog, che – pur osannati nei festival di mezzo mondo – in patria ebbero una fama sotterranea.

Alcuni dei suoi film hanno segnato per sempre il nostro immaginario collettivo: Le lacrime amare di Petra Von Kant e Selvaggina di passo (1972), Martha (1973), Il matrimonio di Maria Braun (1978), Berlin Alexanderplatz, film televisivo in tredici parti e un epilogo, per 15 ore e mezza di durata totale (1980) e infine Querelle (1982), uscito postumo.

Il rapporto di Fassbinder con il teatro nasce probabilmente come ripiego. Rifiutato dall’Accademia superiore del cinema di Berlino nel 1965, si iscrive a una scuola di recitazione, dove incontra Hanna Schygulla – che sarà attrice prediletta dei suoi cast cinematografici – con cui nel 1967 si aggrega all’Action Theater, un gruppo off della scena monacense. Nel maggio del 1968 l’Action Theater viene chiuso dalla polizia, ma si costituisce subito un nuovo gruppo, chiamato Antiteater, di cui in breve Fassbinder diventerà la mente. È di questo periodo la riscrittura de Il caffè di Goldoni.

Che cosa distingueva le scelte dell’Antiteater? Innanzitutto “…una grande spontaneità nella recitazione” – sostiene il critico tedesco Peter Iden – “la tendenza a spiegare la scelta del soggetto come arbitraria, l’importanza di fattori casuali e irrazionali nello sviluppo della messa in scena … ma anche uno stile veementemente appassionato, e una sottile, quasi trascurata, vena di aggressività”. Tutti elementi presenti in Das Kaffeehaus.

Della trama goldoniana rimangono i luoghi (la bottega del caffè e la bisca) e i personaggi. Nella Bottega del caffè, il padrone del locale, Ridolfo, simbolo positivo della nuova piccola borghesia efficiente e intraprendente, prende a cuore, insieme al suo garzone Trappola, le sorti del giovane Eugenio, che sta dilapidando il patrimonio di famiglia nella casa di gioco di Pandolfo, dove ha perso molti denari giocando con Flaminio, che millanta di essere un nobile torinese. Vittoria, moglie di Eugenio, cerca di far ravvedere il marito, mentre Placida, travestita da pellegrina, giunge a Venezia per riprendersi lo sciagurato consorte, Flaminio, che nel frattempo ha promesso a Lisaura, una ballerina, di sposarla. Don Marzio è un nobile napoletano in decadenza, pettegolo e intrigante, che contribuisce con le sue chiacchiere e i suoi intrighi a complicare la vicenda, che però si conclude con la rappacificazione delle coppie, l’arresto di Pandolfo e l’abbandono della città da parte di don Marzio.

Nel testo di Fassbinder i caratteri e le situazioni vengono portati all’esasperazione, in un percorso di crudele e sciente parossismo. Gradualmente si rivela la vera natura dei personaggi, che è spietata e dominata dall’interesse e dalla sopraffazione. Il solo motore è il danaro. Si salvano Trappola, il garzone, che ingenuamente presta soldi a Eugenio per permettergli di pagare i debiti di gioco, sperando in una sua redenzione; Lisaura, prostituta sì, ma innamorata di Flaminio e infine Don Marzio, l’intruso, il “foresto”, che nonostante i suoi imbrogli non nasconde la sua vera natura. Sarà lui il capro espiatorio del dramma che si concluderà con un violento pestaggio a sue spese.

Fassbinder, a modo suo, è stato un sentimentale (amava i melodrammi di Douglas Sirk, pseudonimo di Detlef Sierck, un tedesco scappato negli Usa con l’avvento del nazismo). I suoi personaggi tentano disperatamente, e inutilmente, di definirsi grazie all’altro: la loro anima è devastata dalla paura di esistere, di essere al mondo. È proprio questo il tema ricorrente del regista: la separazione come catastrofe dell’Io e sprofondamento in un’esperienza di lutto in cui la perdita dell’altro significa anche perdita di sé e della possibilità di identificarsi narcisisticamente con l’oggetto d’amore, di fare Uno. In Querelle, consegnò a una splendida Jeanne Moreau la battuta che potrebbe essere il suo testamento: “Ogni uomo uccide ciò che ama.”

Ebbene, spiace dirlo, ma la messinscena del Rossetti non ha funzionato.

La regia di Veronica Cruciani, seppur attenta alle indicazioni autoriali: tutti gli attori in scena sempre, tableau vivant a segnare le tappe fisse e brechtiane della narrazione – come documentato nel video che Fassbinder girò nel 1970 dello spettacolo – non è riuscita ad arrivare al cuore dell’autore tedesco e a comunicarne la portata. Ha saputo trasmettere soltanto il sapore formale ed effimero di un‘estetica sadomasochistica – tutte le attrici nella scena finale in guepiere – vagamente riconducibile a una lettura superficiale, puramente esteriore, priva dei contenuti più pregnanti.

Tra gli attori spicca la recitazione sciolta e di mestiere di Graziano Piazza, che interpreta Ridolfo, e di Francesco Migliaccio, nel ruolo di don Marzio. Monocorde, spesso sopra le righe e priva di sfumature interpretative la performance degli altri attori dello Stabile, che non arriva a coinvolgere il pubblico. Scene e costumi imbarazzanti per banalità, così come le coreografie che fanno da intervallo alle azioni sceniche.

 

Personaggi e interpreti:

Graziano Piazza (Pandolfo)

Filippo Borghi (Eugenio)

Ester Galazzi (Lisaura)

Adriano Braidotti (Conte Leandro)

Andrea Germani (Trappola)

Lara Komar (Vittoria)

Riccardo Maranzana (Ridolfo)

Francesco Migliaccio (Don Marzio)

Maria Grazia Plos (Placida).

 

Traduzione: Renato Giordano

Regia e adattamento scenico:

Veronica Cruciani.

Scene e costumi:

Barbara Bessi.

Luci : Gianni Staropoli.

Drammaturgia sonora:

Riccardo Fazi.

Produzione:

Teatro Stabile del FVG.