Frankenstein Junior o della parodia

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di Stefano Crisafulli

 

Il nitrito dei cavalli quando viene nominata Frau Blucher e la celebre gobba di Igor/Aigor (‘Quale gobba?’): ai cultori bastano (e avanzano) questi due indizi per identificare il film in questione. Si tratta, ovviamente, di Frankenstein junior (titolo originale: Young Frankenstein), una delle più celebri e riuscite parodie di quel geniaccio di Mel Brooks. Uscito nel 1974, il film in bianco e nero ha riscosso un immediato successo che, lungi dal diminuire con gli anni, è proseguito sino a doppiare la boa del nuovo millennio, diventando una pellicola di culto. Frankenstein junior ha fatto ridere intere generazioni ed è uno di quei film che si rivedono volentieri più e più volte, tanto da conoscere ormai le battute a memoria. Eppure, proprio perché si conoscono già, mantengono intatta la loro vis comica. Merito, certo, anche dei due protagonisti: un Gene Wilder in stato di grazia nei panni del dottor Frankenstein e un Marty Feldman perfetto nella parte del servitore Igor. Vanno inoltre ricordati il mostro di Peter Boyle, la prorompente Inga di Teri Garr, la fidanzata Elizabeth di Madeline Kahn (memorabile il suo melodrammatico saluto a colpi di ‘taffetà’) e anche l’eremita cieco e barbuto di Gene Hackman.

Come ha fatto Mel Brooks, coautore della sceneggiatura assieme a Gene Wilder, a costruire una parodia così memorabile? Intanto, riprendendo alla lettera le atmosfere del film originale: quel Frankenstein diretto nel 1931 da James Whale e interpretato da Colin Clave (il dottore) e Boris Karloff (la creatura). Brooks volle addirittura utilizzare alcuni elementi scenici del capolavoro di Whale per il suo film. E poi, ribaltando gli stereotipi del genere horror: la paura si trasforma in occasione di risata e i dialoghi rovesciano l’atmosfera suggerita dal contesto. In pratica, è un gioco di cornici tipico delle parodie: l’involucro scenografico rimane lo stesso, ma il risultato è completamente opposto. Anche la storia viene mantenuta nei suoi punti fondamentali (la creazione del mostro, la sua ribellione e la fuga, la caccia), ma i nuclei drammatici si trasformano in elementi comico-grotteschi. Ad esempio, quando il mostro, fresco di laboratorio, tenta di aggredire il suo creatore in un impeto di rabbia, la scena, che dovrebbe essere terrorizzante, diviene una delle più comiche del film: stretto nella morsa del mostro, il dottor Frankenstein cerca disperatamente di dire ai suoi assistenti, Igor e Inga, di somministrargli un sedativo, ma non ci riesce del tutto. Così comincia un esilarante gioco dei mimi e ‘sedativo’ diventa prima ‘sedano’ e poi persino un improbabile ‘sedadavo’ (nella traduzione italiana).

Già, la traduzione. Spesso la versione italiana di un film straniero perde molta efficacia proprio perché le battute vengono tradotte e si sa quanto sia difficile rendere bene il significato di una frase umoristica in un’altra lingua. Eppure, anche in questo caso, c’è stato un ottimo lavoro: la traduzione non ha solo reso bene le battute per il pubblico italiano, ma le ha addirittura migliorate. Si pensi, ad esempio, al famoso scambio tra Igor, Inga e il dottore, mentre stanno andando verso il castello: ad un certo punto si sente l’ululato di un lupo. Nell’originale il lupo è detto ‘Werewolf’, che in inglese può significare ‘lupo mannaro e anche ‘dov’è il lupo’, ma in italiano il gioco di parole sarebbe intraducibile, così ne vien fuori il pluricitato ‘Lupo ululà, castello ululì!’. La scena poi si conclude con un sublime: ‘Eculu là’.