Bruno Catalano, sì viaggiare

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Le sue originali sculture dislocate in quattro suggestive sedi a Venezia

di Michele De Luca

 

Per il prototipo del viaggiatore, secondo lo scultore Bruno Catalano, gli elementi essenziali sono: la testa, una valigia e i piedi. La testa, ovviamente, per immaginare la meta e per mantenere la memoria; la valigia per portare il ricambio della biancheria e i sogni; i piedi per muoversi. E naturalmente le scarpe, come cantava Ettore Petrolini, e poi Nino Manfredi: “Basta ‘a salute e un par de scarpe nove / poi girà tutto er monno”. Tanto basta per intraprendere il viaggio; che può essere oltre i confini del proprio paese, come all’interno del proprio io. Come scriveva Voltaire, “è ben difficile, in geografia come in morale, capire il mondo senza uscire di casa”; e John Steinbeck: “Le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone”. Quanti pensieri e aforismi si affollano nella mente quando si tocca il tema del viaggio, in cui, da sempre attratto e affascinato, l’uomo ha finito per identificarsi, come nella più essenziale metafora della stessa esistenza. Un tema, che con le sue emozioni, le sue scoperte, con le sue paure, con le sue inquietudini; e che di questi tempi, con le trasmigrazioni epocali e gli esodi biblici a cui stiamo assistendo, si impregnano di significati di forte attualità. Mai tanta gente, da immemorabili tempi, si era visto “viaggiare”, come nel nostro tempo. Come oggi; e non per una scelta, ma per decidere se morire o vivere.

“Nel mio lavoro – ha detto Catalano – sono alla ricerca del movimento e dell’espressione dei sentimenti; faccio emergere dall’inerzia forme e riesco a levigarle fino a dare loro nuova vita. Proveniente dal Marocco anche io ho viaggiato con valigie piene di ricordi che rappresento così spesso nei miei lavori. Non contengono solo immagini: tutte le opere di Catalano sono ricomponibili in un unico tema e in una unica ispirazione poetica, che si concreta in quella che può definirsi la “metafora” del viaggio; ma anche vissuto, i miei desideri: le mie origini in movimento”. Dopo due anni, la Galleria Ravagnan di Venezia torna a dedicargli una singolare “mostra diffusa” (“Les Voyageurs”, che durerà fino a novembre) in concomitanza della 58° Biennale d’Arte di Venezia, dislocata in cinque diverse sedi espositive, tra San Marco e Dorsoduro: Chiesa di San Gallo, Teatro Goldoni, Sina Centurion Palace, la storica Ravagnan Gallery in Piazza San Marco e la nuova sede a Dorsoduro 686. L’esposizione raccoglie all’incirca trenta sculture recenti, figure capaci di instaurare un “dialogo” con questi suggestivi ed unici spazi della città lagunare fino a fondersi con essi, creando così, per sei mesi, suggestioni inattese e inimmaginabili lungo un itinerario che tocca punti strategici di Venezia con queste sorprendenti sculture in bronzo caratterizzate dalla totale mancanza della parte centrale del corpo, “nelle quali – come sottolinea Enzo Di Martino, curatore della mostra insieme a Lidia Panzeri – le parti vuote assumono la stessa importanza formale ed espressiva dei volumi pieni”.

Questi anonimi corpi, pur così mutilati, sono in grado anche di camminare, verso quale direzione non è dato sapere. Ma dalle sculture di Bruno Catalano promana una sorta di identificazione tra vita umana e viaggio; un suggestivo filo rosso, che da Ulisse giunge a Kerouac e al veneziano Corto Maltese. Ha scritto Anaïs Nin: “Il viaggio più lungo è quello all’interno di noi stessi”; e Italo Calvino nelle sue Città invisibili: “Si può viaggiare per migliaia di chilometri ma non si può mai allontanarsi veramente da se stessi”. E con il viaggio, la nostalgia: gli inseparabili bagagli per l’artista costretto a lasciare da bambino il suo paese per Marsiglia. Tutto ciò popola l’inquietudine e l’ansia creativa di Catalano, che si esprimono in una trasfigurazione artistica sofferta, densa di emozioni, di rimpianti, ma anche di speranza e di un bisogno irrefrenabile di approdare presso civiltà e culture nuove e sconosciute.

Catalano è nato in Marocco nel 1960 (vive e lavora in Francia), ma è costretto ad emigrare in Francia con la famiglia e sbarca a Marsiglia e a diciotto anni diventa marinaio. L’esperienza dello “sradicamento” e il periodo passato in mare segneranno profondamente la sua esistenza. Marsiglia, dunque, è il suo punto di approdo, dopo aver vissuto da marinaio per trent’ anni senza una dimora fissa, navigando tra i diversi porti del mondo. Ed è qui che ha iniziato la sua carriera: modellando l’argilla prima, la colatura in bronzo poi; la tecnica utilizzata per queste sculture è il bronzo, trattato a frammenti e colorato con tinte mai brillanti che conferiscono alle figure una patina d’altri tempi. Ispirato ai grandi maestri come Rodin , Giacometti , Camille Claudel, il marsigliese César (César Baldaccini) e soprattutto Bruno Lucchesi, da cui apprende la tecnica di modellare l’argilla, lo scultore riesce a superare la sfida dei suoi predecessori, aggiungendo una quarta dimensione nel suo tentativo surrealista, ben riuscito, di creare il vuoto nello spazio, utilizzando inizialmente l’argilla per evolvere in seguito verso l’uso del bronzo.

L’esito colto e raffinato, che ne risulta, ben incardinato nella contemporaneità, ma alimentato da una sicura preparazione culturale sembra voler sfidare la crisi della scultura nel panorama dell’arte di oggi, con una prorompente forza innovativa, tesa a lasciare un’impronta fortemente soggettiva e una sua personale ed inedita via espressiva, proponendo una nuova concezione dell’opera plastica che, come per grandi artisti quali il giapponese Azuma (per il quale “il vuoto è forma”), punta sul “togliere” e sul vuoto. La sua originale vicenda creativa si colloca certamente all’interno di quel processo di straordinario rinnovamento espressivo dell’arte del XX secolo e dichiara un suo personale e ben riconoscibile contributo alla contrapposizione dialettica tra i pieni e i vuoti. In questa prospettiva emerge l’originale “classicità” della scultura di Catalano, pur nella frantumazione e nell’assenza di parte delle figure. Un “non finito” che continua a guardare alla lezione michelangiolesca, e che invita chi guarda a perdersi nello sfondo o a completarne il disegno, magari chiedendosi come queste figure riescano a sfidare le leggi della statica.

Le sue opere, quasi ossessivamente, rappresentano un uomo che cammina con il suo bagaglio, come un viaggiatore che non si sa però da dove viene né dove vada, lasciando però frammenti di sé lungo il cammino: è il tema del disorientamento e dell’inquietudine che caratterizza il “fatale andare” dei nostri tempi. Nella Chiesa di San Gallo, piccolo oratorio cinquecentesco e fulcro dell’esposizione, a due passi dalla Fenice, avviene l’incontro tra bronzo e terracotta con l’installazione intitolata “Poser Ses Valises”: a riflettersi, quasi in un gioco di specchi, le figure non più sole ma messe in relazione tra di loro. All’interno della chiesa l’artista depone anche alcuni dei suoi bagagli, che sono l’emblema stesso del viaggio: la valigia, dove conservare oggetti, ma anche i propri desideri e l’aspettativa di un futuro migliore. Oggetti usuali e concreti, ma carichi di un forte e struggente significato metaforico.