Lartigue, il tempo ritrovato

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Una grande retrospettiva alla Casa dei Tre Oci a Venezia

di Michele De Luca

 

In fotografia l’amatorialità è un fenomeno complesso, in buona parte perché nel momento stesso in cui esso si manifesta, il senso del termine amatore si evolve. Come ha scritto Francis Picabia, «nel vocabolario francese esso non indica esattamente la stessa cosa all’inizio e alla fine dell’800. Nei primi decenni l’amatore è accomunabile al connoisseur inglese. è colui che ama e coltiva, con una certa nobiltà di spirito, le scienze o le arti […] sul finire dell’Ottocento esso comincia ad acquisire una connotazione peggiorativa che si confermerà per tutto il Novecento e perdura ancora ai nostri giorni». L’amatore, cioè, viene visto come “dilettante”: per lui – continua Picabia – “il soggetto dell’immagine conta molto più della maniera di ottenerla, come risulta perfettamente evidente nelle fotografie del giovane Jacques Henri Lartigue” (Courbevoie, Île-de-France, 1894 – Nizza, 1986); a lui non interessa tanto provare la sua abilità nello scattare un’istantanea, quanto piuttosto conservare la memoria di momenti di svago e divertimento trascorsi in compagnia di parenti e amici. Per Lartigue, come per la maggior parte degli amatori dilettanti, la “foto ricordo” ha decisamente la meglio sulla “prodezza fotografica”.

Ciò non toglie assolutamente nulla all’originalità, all’ironia, alla raffinatezza delle sue immagini, oltre che alla memoria storica che esse conservano e che ci tramandano attraverso una visione tesa a testimoniare momenti per lo più felici, scanzonati, specie per quanto riguarda la produzione più giovanile, guardati e immortalati con una prontezza nello scatto e con inquadrature a volte “spericolate”, che tradiscono un atteggiamento sempre “ludico” e divertito. Lartigue preferiva presentarsi come pittore, relegando la fotografia ad un puro divertissment; ma, se è entrato in una “storia”, è quella della fotografia. Uno dei soggetti preferiti da Lartigue sarà rappresentato dalle eleganti dame a passeggio al Bois de Boulogne, che inizierà a fotografare a partire dal 1910, all’età di sedici anni. Ed è proprio grazie a queste immagini che successivamente verrà considerato come uno dei precursori della fotografia di moda. Sempre in questi anni inizia a delinearsi la filosofia che poi caratterizzerà non solo la sua arte, ma l’intera sua vita: il culto della felicità, la ricerca di un idillio che non possa essere turbato da traumi profondi.

Una grande retrospettiva ne ripropone la figura e l’opera alla Casa dei Tre Oci a Venezia (“L’invenzione della felicità. Fotografie 1894-1986”) curata da Denis Curti in collaborazione con la Donation Jacques Henri Lartigue di Parigi per ripercorrere l’intera sua carriera, dagli esordi dei primi del ‘900 fino agli anni ’80 e di evidenziare come il suo occhio fotografico si fissi su alcuni ironici o curiosi dettagli della vita di tutti i giorni lungo ben nove decenni. Come ebbe a scrivere Angela Madesani in occasione della bella mostra di tre anni fa al Museo Bagatti Valsecchi di Milano, «L’inizio dell’attività dell’autore coincide con la fine di un mondo e con il brutale risveglio da un sogno, segnato dallo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914. Ma, anche qui, Lartigue non registra nulla di tragico: ritrae la madre vestita da crocerossina, qualche gruppo di soldati e se stesso in uniforme (anche se non era stato fatto abile). In questi primi anni il suo lavoro è dedicato al movimento, che si tratti di quello umano, di quello delle automobili (il padre ne possiede una elettrica già nel 1902) o anche di quello del gatto che salta felice. Il movimento è il nuovo, è il futuro, così anche per i nostri Futuristi con i quali non vi è certo nessuna parentela stilistica, ma uno Zeitgest, vale a dire uno spirito culturale che informa una determinata epoca: sono tutti figli del Positivismo».

Quella di Lartigue, in definitiva, è una sorta di biografia per immagini, che integrano e si intrecciano con la sua scrittura. Fotografia e pittura interagiscono, ciascuna con la sua specificità e originalità, nel suo pluridecennale e intenso e intenso lavoro creativo, come lui stesso ebbe a delineare nel 1932, in un atteggiamento spirituale e intellettuale di sapore decisamente proustiano, nel suo libro L’oeil de la mmémoire: «Non faccio alcuna gerarchia. Sono mezzi di espressione differenti che rispondono a uno stesso scopo, trattenere ciò che passa, incessantemente. Se è molto veloce scelgo la foto perché è l’arte del transitorio. Ma se soffro del fatto di non avere visto in profondità la primavera, allora la dipingo. E la scrittura completa tutto questo, come uno sguardo verso l’interno, una passione, un gioco».

Nella storia di Lartigue salta all’occhio un particolare molto significativo e importante. è solo nel 1963, vale a dire quando stava per compiere settant’anni – non ci si crederebbe, in quanto ce n’è certo voluto per considerare il suo lavoro fotografico “degno” di essere “esposto” – allestisce la prima mostra fotografica personale al Museum of Modern Art di New York e Life gli dedica un servizio di dieci pagine sul numero di novembre, ossia lo stesso che riporta i fatti dell’assassinio di J.F. Kennedy. Lartigue lo aveva incontrato, nel 1953, quando ancora era un giovane senatore, e per ironia della sorte i loro destini si incrociano di nuovo dieci anni dopo: l’evento tragico dell’omicidio del presidente determinerà un’altissima tiratura del numero della rivista in questione, a sua volta essa determinerà una grandissima (e involontaria) pubblicità per Lartigue. Ed è sempre in questo periodo che John Szarkowski, direttore del Dipartimento di Fotografia del MoMA, definisce Jacques Lartigue come «il precursore di ogni creazione interessante e viva realizzata nel corso del XX secolo». Si trattò del primo vero riconoscimento ufficiale. Infine, una curiosità: Lartigue era amico e molto amato da Fellini che, nel 1986, lo volle per la parte del “frate volante” in Ginger e Fred.