Una festa analogica

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Corpo / Body” è il soggetto proposto per l’ottava edizione di Fotografia Zeropixel

di Walter Chiereghin

Si presenta come un’autentica festa dell’immagine l’ottava edizione di “Fotografia Zeropixel”, un festival internazionale di crescente importanza che vede impegnati – tra un ricchissimo progetto espositivo ed altre attività collaterali – oltre cento fotografi provenienti da Italia, Slovenia, Croazia, Germania, Messico, Giappone e Stati Uniti. Il tema col quale sono stati chiamati a confrontarsi tutti gli artisti presenti, come nelle edizioni precedenti condensato in una sola parola, si qualifica, quanto pochi altri, vasto e coinvolgente: “Corpo / body”.

Nell’introdurre un bel catalogo di immagini del goriziano Roberto Kusterle, (2015), Giuseppe O. Longo osservava: «Oggi è pienamente riconosciuta e rivalutata l’importanza, per tutte le manifestazioni umane, del corpo e dei sensi, per cui l’intelligenza starebbe non solo o non tanto nel cervello quanto nel complesso inscindibile corpo-mente. Ed è questo complesso che sente, che vive e che comunica: ad esempio quella particolare forma di comunicazione che è il narrare storie (attività irrinunciabile degli esseri umani) non si compie con la testa, non si compie con il cuore o con le mani o con gli occhi: si compie con tutto il corpo-mente». Questa osservazione di Longo allarga, a dismisura, il campo del soggetto cui è dedicata nel suo insieme la rassegna triestina, che come si vedrà si divarica a documentare sotto i più variegati aspetti del sentire, del narrare e dell’agire umano quanto un tempo era definibile come l’involucro esterno che racchiude un singolo individuo.

Il corpo, comunque, è un soggetto presente da sempre nella cultura visiva universale, fin dalle origini della fotografia, così come in quelle della storia dell’arte che l’ha preceduta, dalle figure dipinte sulle pareti delle grotte abitate dai primi uomini, al Giudizio michelangiolesco della Sistina, fino alle sovrapposizioni tra pittura e fotografia nell’Ottocento. Proprio per uno dei più famosi dipinti del realismo di Gustave Courbet – e sicuramente il più ardito –, L’origine du monde, del 1866, l’opera trovò probabilmente un antefatto nella fotografia stereoscopica, parte di una serie di scatti lascivi realizzati da Auguste Belloc, fotografo che collaborò numerose volte con Courbet.

Il tema del corpo, tuttavia, include ma non si esaurisce con il nudo, altrimenti la rassegna di Zeropixel avrebbe proposto immagini prodotte da epigoni di autori che oscillano dal calligrafismo morbido di David Hamilton, alla controversa lettura dei corpi prevalentemente femminili di Helmut Newton, o alle acuminate provocazioni dei nudi, prevalentemente maschili, di Robert Mapplerdophe.

Nella collettiva curata da Fabio Rinaldi e Giacomo Frullani, come pure nelle altre cinque collettive e nelle altre iniziative espositive proposte dal Festival, il tema del corpo spazia su una vasta pluralità di interpretazioni che assegnano al soggetto una interpretazione più ampia ed estensiva della contemplazione di un corpo, nudo o vestito che sia, tale da toccare persino la metafora, come avviene ad esempio nell’immagine multipla composta da trentasei fotogrammi polaroid assemblati nel mosaico di Annamaria Castellan Corpo violato (2021) dove il corpo è quello del tronco di un albero ad alto fusto che negli anni ha incorporato una catena che lo cingeva, oltre a portare altre cicatrici e segni di vernice che raccontano la sua storia più recente, come tatuaggi, lividi e catene più o meno materiali possono raccontare storie di donne attraverso il loro corpo. Oppure un corpo definito dalla sua assenza, come in Impermanenza (2021), di Piero Pieri, dove sono gli abiti abbandonati in riva a un torrente a raccontare la storia di un corpo in un suo altrove fuori campo. O ancora corpi umani ibridati con animali, come nell’immagine Sardegna Ula Tirso (2000) di Francesco Cito, oppure con inquietanti oggetti inanimati, come in Mauro Paviotti, I nuovi guardiani (2010).

I corpi umani, poi, entrano direttamente come personaggi di narrazioni accuratamente sceneggiate che si risolvono in un singolo fotogramma, come nella drammatica Deposizione di Maurizio Frullani (2004), che ripropone un tema caro e largamente esplorato nella storia della pittura e della scultura occidentali. La scena vera e propria, quella che si materializza su un palcoscenico, offre lo spunto per la rappresentazione di composizioni fortemente dinamiche, soprattutto nella danza, come in Renato Corsini, che propone con Balletto del XX secolo di Maurice Bejart (1977) un’esaltazione corale di corpi perfetti.

Ma è naturalmente il corpo femminile il motivo ricorrente, soprattutto nelle versioni meno esplicite, che suggeriscono appena il soggetto, come nel sapiente gioco di luci che accenna appena un profilo nel Nudo # 13 (1989) di Fabio Rinaldi, oppure per un richiamo poetico a un paesaggio naturale (il riferimento che viene spontaneo alla mente sono i versi di una celebre poesia di Pablo Neruda; «Corpo di donna bianche colline, cosce bianche / assomigli al mondo nel suo atteggiamento di abbandono») com’è in Dune (2014) di Gabriele Rigon.

Alla straordinaria abbondanza di interpreti proposta alla grande collettiva allestita al Magazzino 26 del Porto Vecchio di Trieste (poiché solo di quella abbiamo frammentariamente finora parlato) corrisponde un’altrettanto abbondanza di tecniche utilizzate per la stampa. Sono difatti esibite immagini ricavate da ingrandimenti o da stampe a contatto ai sali d’argento, da fotografia istantanea (polaroid), elaborate tramite solarizzazioni, colorate a mano, od ottenute mediante tecniche inusuali, desuete, come la cianotipia (Arnaldo Agugiaro) o sperimentali, quali stampe alla gelatina d’argento su carta baritata virata al selenio (Boris Gaberščik), assemblaggio di una pluralità di negativi e/o positivi e stampati quindi a contatto (Daniele Sandri), e ancora stampe all’albumina (Javier Gonzàles Carlos), callitipie, stampe a carbone, la stampa alchemica ai sali d’argento, ricorrente nell’opera di Sergio Scabar, presente con Soffio di luce, uno studio di nudo che è certo un’eccezione tra le sue indimenticabili nature morte, opere uniche, monocromi scuri che richiamano il magistero pittorico di Giorgio Morandi. Una gamma così articolata di tecniche – di ogni genere, tranne il ricorso al digitale – è resa possibile da una rilevante quantità di artisti, che si sono cimentati per questa ottava edizione della rassegna triestina, allargata tuttavia su un più vasto territorio; spiace non potersi soffermare più analiticamente su molte altre iniziative del Festival, ma non è detto che non ci sia possibile ritornare sull’argomento, perché troppe cose sono state lasciate fuori da questo articolo, che avrà almeno il merito di essere abbondantemente illustrato.

Fabio Rinaldi

Nudo # 13 (1989)

stampa ai sali d’argento

su carta baritata Oriental

e viraggio al selenio