Galimberti e i mosaici scomposti

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A Pordenone una rassegna di polaroid che ri-compongono fotografie storiche

di Paolo Cartagine

 

Maurizio Galimberti è uno dei più autorevoli autori della fotografia italiana contemporanea. Nato a Como nel 1956, è conosciuto anche all’estero per il suo personale modo di intendere e utilizzare la fotografia quale strumento di comunicazione. Le sue immagini di Mosaici scomposti sono esposte fino al 16 ottobre 2022 presso la Galleria Harry Bertoia di Pordenone, nell’ambito della trentaseiesima edizione del Premio Friuli Venezia Giulia Fotografia curata dal CRAF, Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia.

Sono immagini che raccontano alcuni momenti salienti della Storia a noi vicina – dove incontriamo in particolare Martin Luther King, Falcone e Borsellino, Giovanni Paolo II, Le Olimpiadi di Monaco, La Guerra Fredda e Nikita Chruščëv, Alan Kurdi, (il bambino separato dai genitori alla frontiera Messico-Stati Uniti) – attraverso un innovativo utilizzo del linguaggio visivo che l’autore ha messo in campo per proporre una modalità espressiva tale da incuriosire gli osservatori e far loro scoprire cosa in realtà Mosaici scomposti mostrano al di là delle apparenze superficiali.

Galimberti inizia il suo percorso costruttivo “dall’idea al segno” selezionando famose foto esistenti, prosegue secondo un ingegnoso procedimento da lui inventato per ri-fotografarle con tante Polaroid, che infine incolla in un rettangolo o in quadrato.

Il risultato? Ogni immagine è un insieme di Polaroid che, poste una vicino all’altra, formano una rappresentazione che rimanda alla foto di partenza e, nel contempo, mostra la maniera frammentata della realizzazione. Galimberti non si nasconde nel chiarire che sono altri gli autori delle foto originarie (che cita assieme ai relativi titoli); in pratica, le considera alla maniera Dada dell’oggetto “ritrovato” e riutilizzato nell’accezione estesa di Gillo Dorfles del «ready-made “rettificato”, dove la modificazione dell’oggetto avviene attraverso una correzione che formalmente lo trasforma».

Mosaici scomposti è una rilettura della memoria fotografica che non intende sostituire o alterare il significato di ciò che era stato ripreso e divulgato, ma che punta invece a far riemergere momenti, eventi e persone il cui ricordo negli anni si corrode e si scolora lasciando tracce sbiadite.

In tal senso, proprio l’impiego della pellicola analogica Polaroid a “sviluppo istantaneo” è una scelta che istituisce un ideale ponte verso il passato. La Polaroid – un universo a sé, frutto del brevetto dello statunitense Land attorno alla metà del ‘900 – consentiva di vedere sul posto e in pochi minuti la foto a colori, o in bianconero, senza bisogno di laboratori di sviluppo e stampa. Era un by-pass al problema di non immediatezza delle pellicole tradizionali, oggi superato dalla tecnologia digitale. Nonostante svariate vicissitudini commerciali, il “sistema Polaroid” è ancora sul mercato seppur con differenti marchi, e trova ampio uso specie nelle ricerche artistiche che, guardando al passato, puntano a nuove forme espressive.

Alla fine, ogni immagine è un connubio fra creatività e tecnica. L’assunto creativo di Galimberti è stato quello di scomporre una foto esistente in tante polaroid più piccole, da realizzare mediante una precisa procedura tecnica per mantenere costanti distanza di ripresa, messa a fuoco, rapporto di riproduzione e illuminazione. Nulla dell’originale deve restare escluso e, in base all’ispirazione, Galimberti procede inoltre con parziali sovrapposizioni.

Segue a tavolino la ri-costruzione che l’autore fa fissando su un supporto ciascuna polaroid: per quelle poste ai margini lascia in vista la cornice bianca esterna. Siccome usa una pellicola con formato quadrato dell’ordine dei 10 cm di lato, l’immagine conclusiva può raggiungere dimensioni superiori al metro, cioè più di quelle della foto originale.

Ne nasce una nuova modulazione spaziale che altera la configurazione iniziale, tale però da non inficiare la riconoscibilità del soggetto di partenza grazie alla coerenza fra de-costruzione in ripresa e ri-costruzione conclusiva, in cui ogni singolo frammento dialoga con quelli limitrofi. È una moltiplicazione senza ripetizione dei punti di vista (uno per ogni polaroid), che costituisce una radicale messa in discussione del tradizionale principio base della fotografia, quello del punto di vista unico dove si colloca il fotografo per scattare.

Attraverso questo modo di procedere – pensato e programmato in anticipo fin nei minimi dettagli – Galimberti si allontana dalla classica tipologia delle fotografie dirette come lo sono quelle dei suoi soggetti.

Due dunque le fasi del processo realizzativo in costante aderenza fra azione e pensiero. La prima si avvale della tecnologica perché la ripresa è fatta con la macchina fotografica e la pellicola industrialmente prodotte; nella seconda predomina l’artigianalità del montaggio manuale delle polaroid nelle posizioni previste.

Nella costruzione delle immagini di Mosaici scomposti, l’azione manuale origina inevitabili (seppur lievi) imprecisioni casuali e non intenzionali che sfuggono al rigido vincolo della geometria perfetta. Ciò comporta la loro non replicabilità intesa quale copia identica. Quindi le immagini di Galimberti sono pezzi unici.

Tra foto originale e sommatoria di polaroid, in Mosaici scomposti c’è il ricorrente filo indistruttibile del tempo, tempo che è declinato in tre intervalli: il primo va dal momento della ripresa a quello della diffusione della foto originaria; il secondo, da questa e alla rilettura-elaborazione di Galimberti; il terzo infine da quest’ultima alla nostra inerente osservazione. Quasi a rimarcare che in Mosaici scomposti il tempo interiore non coincide col tempo reale a motivo degli scostamenti fra le nostre percezioni e i sentimenti di allora e quelli di adesso, ma anche ad accorgersi che questa naturale instabilità ci apre spazi interiori inesplorati.

Non ci sono istruzioni per l’uso per “appropriarsi” di queste immagini.

Infatti, ogni immagine può essere vista come un unicum compatto da avvolgere con un solo sguardo per abbracciarla completamente, come suggerirebbe la teoria della Psicologia della forma (Gestalt), che ritiene l’aspetto globale diverso dalla somma delle singole parti in quanto la conoscenza del tutto non è deducibile dalla conoscenza dei singoli componenti.

All’opposto, ogni immagine può essere considerata più da vicino quale tessera di un puzzle. E allora ciascun osservatore sceglie mentalmente una polaroid da cui partire per associarne via via altre dato che ogni frammento rivela qualcosa di nuovo, e dove conta solo la possibilità di collegare quella polaroid alle altre affinché, così ricomposte, assumano un carattere leggibile e acquisiscano un senso compiuto. Ogni immagine sarebbe così una specie di mappa potenziale per scoprire gli elementi che poi ciascuno di noi ricomporrebbe a proprio modo per delineare un personale itinerario, più o meno accidentato, di riappropriazione della nostra Storia.

 

da Tony Gentile

Falcone e Borsellino, 1992