Grazie al capo dello Stato

| |

Nei peana di vittoria di buona parte dei commentatori per l’avvio dell’esperienza di governo di Mario Draghi, oltre che nei più giustificati sospiri di sollievo per l’uscita da una delicata situazione istituzionale in cui era stata compressa la maggioranza uscente, prevale una vulgata secondo la quale la dinamica cui abbiamo assistito tra le dimissioni del precedente Gabinetto e la fiducia accordata a quello che gli subentra ha visto il prevalere di logiche “tecniche” rispetto a quelle “politiche”. A giudizio di chi scrive, è vero l’esatto contrario.

La gestione di questa crisi affidata, come da Costituzione, al presidente della Repubblica, ha avuto un suo momento di svolta nella breve, tesa comunicazione che il presidente ha reso pubblicamente davanti a telecamere e giornalisti nei saloni del Quirinale, Quell’intervento di sei minuti e quaranta secondi è stato la rivincita della politica, quella con la “P” maiuscola, sull’indistinto chiacchiericcio di quella che, con una “p” assolutamente minuscola, proponeva soluzioni impercorribili a una crisi di governo caparbiamente perseguita da una formazione parlamentare che, stando almeno ai sondaggi, rappresenterebbe una frazione quasi insignificante della volontà popolare. In quell’indistinto chiacchiericcio, prendevano corpo tra le altre le posizioni di chi reclamava, come testardamente aveva fatto per più di un anno e mezzo, elezioni anticipate, probabilmente senza nemmeno volerle davvero, ma credendo di assicurarsi in tal modo una base polemica da utilizzare nelle fasi successive dell’eterna campagna elettorale nell’ambito della quale accaparrarsi consensi.

Come ha spiegato con chiarezza il Capo dello Stato, l’opzione di un ricorso anticipato alle urne è di fatto preclusa dalla invadente presenza non di una, ma di tre emergenze che si sono sovrapposte nell’ultimo anno: quella sanitaria, per la quale siamo costretti a considerare quotidianamente il numero dei morti, quella sociale con la scadenza del blocco dei licenziamenti che avverrà a fine marzo, e quella economica, cui è associata l’urgenza di fornire all’Unione Europea adeguate risposte per usufruire dell’enorme portata degli aiuti che, tra prestiti e contributi a fondo perduto, il Paese non può assolutamente perdere. Per fronteggiare un così articolato fronte di emergenze è necessaria la presenza di un governo nella pienezza dei suoi poteri il che preclude di fatto la possibilità di elezioni anticipate, che causerebbero una stasi governativa per un periodo di almeno quattro o cinque mesi, tra lo scioglimento delle Camere, la formazione delle liste di candidati, la campagna elettorale, la proclamazione degli eletti, l’insediamento del nuovo Parlamento, l’elezione degli organi di presidenza di Camera e Senato, la costituzione di un nuovo Governo e infine il voto di fiducia che lo renderebbe finalmente operativo.

Ecco che, come ci ha spiegato il presidente, l’unica via percorribile era quella di affidare l’incarico a una personalità in grado di raccogliere attorno a sé una maggioranza quanto più possibile larga, con un richiamo alle forze politiche presenti in Parlamento perché concorrano alla formazione di un governo «di alto profilo, che non deve identificarsi con alcuna formula politica».

Da tale ragionamento squisitamente politico è scaturito l’incarico affidato al nuovo presidente del Consiglio che proprio nel momento in cui sto scrivendo riceve il secondo voto di fiducia. Ancora una volta, con l’assunzione di responsabilità del Capo dello Stato, la Costituzione entrata in vigore il 1 gennaio 1948 ha garantito la soluzione più coerente ed efficace a una grave crisi in cui versa l’Italia; il fatto che negli atti successivi a quei sei minuti e quaranta secondi di Mattarella ci si sia attenuti strettamente al dettato costituzionale, per esempio ricorrendo a quanto disposto dall’articolo 92 e non dal cosiddetto manuale Cencelli per la formazione del Governo pone basi certe, codificate e solide per un’attività che non sarà né facile né priva di contrasti.