I fantasmi di Dušan Jelinčič

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Un nuovo libro di racconti esplora Trieste e il suo Novecento

«Trieste è una collana con tante perle, tutte diverse tra loro, ma ognuna con il suo fascino sempre nuovo»

di Walter Chiereghin

 

C’eravamo incontrati una prima volta a un’assemblea di studenti al liceo Prešeren di Trieste, negli anni Settanta, ma ho avuto modo di conoscere meglio soltanto alcuni anni fa Dušan Jelinčič e la sua opera narrativa che, all’epoca, era relativamente circoscritta, in buona parte confinata all’interno della sua esperienza alpinistica, che lo aveva portato a scalare – primo tra quanti abitano in Friuli-Venezia Giulia – un Ottomila, al quale negli anni successivi se ne aggiunsero altri due. Seguì poi, nelle librerie, altro, molto altro, al punto che Jelinčič è diventato uno degli autori sloveni che vanta il maggior numero di traduzioni in italiano. Lo scorso anno un romanzo molto triestino, recensito su queste pagine da Anna Calonico (Il Ponte rosso n. 28, ottobre 2017), narrava con riflessi palesemente autobiografici, la storia di alcuni giovani negli anni Settanta, tra impegno politico, studio, scoperta di relazioni sentimentali ed erotiche con l’altro sesso.

Ora, pubblicato da Bottega errante, una giovane casa editrice friulana (peraltro dotata di un già cospicuo e ben impostato catalogo), è uscito un nuovo volume, stavolta di racconti: I fantasmi di Trieste, con il quale l’autore riprende il filo della narrazione di sé e della sua città, coadiuvato anche dalle belle illustrazioni di Elisabetta Damiani. Ne risulta, alla fine, un quadro articolato e composito, né poteva essere diversamente, considerando le pluralità che connotano di sé l’autentica realtà di questa città in qualche misura inafferrabile, pur se ampiamente indagata e illustrata nelle pagine dei suoi scrittori.

Come ha rivelato l’autore stesso nel corso di una presentazione del volume, la sua idea originale era quella di scrivere un romanzo, progetto in seguito abbandonato, in considerazione del tumultuoso affollarsi sulla scena di una quantità di personaggi e di situazioni difficilmente gestibili per mezzo di una scrittura sorvegliata e incisiva. La forma racconto, così, si è rivelata più adatta all’enucleazione di una piccola serie di figure e di storie (i racconti sono nove, corredati da una nota conclusiva) che, come le tessere di un mosaico, compongono nel loro insieme un’immagine della città, di alcune personalità che l’hanno abitata e del suo divenire storico nella frazione temporale che attraversa quasi per intero il Novecento. La narrazione procede in forma autobiografica, partendo spesso da un ricordo personale, risalente magari all’infanzia, che è pretesto per dischiudere una finestra su un luogo o un ambiente, di norma tra i meno rappresentativi e riconoscibili di Trieste, oppure sulla vicenda umana di qualche personaggio storico che per tali luoghi sembra aggirarsi ancora, come un fantasma, appunto.

Il primo di questi – in ordine di apparizione – è la singolare figura di Diego de Henriquez, introdotto dalla curiosità dell’autore bambino, che abitava con la famiglia sul colle di San Vito, in prossimità di un fondo dove il bizzarro collezionista immagazzinava alcuni dei suoi più ingombranti reperti bellici: cannoni, autoblindo, carri armati. De Henriquez viene rappresentato nell’ultima sua serata, accompagnato dal fido amico a quattro zampe Pax, mentre nel consumare la sua cena frugale vive come un’oscura premonizione la presenza attorno a sé di brutti ceffi, presumibilmente neofascisti, che sembrano spiare le sue mosse. Morirà poche ore dopo, nell’incendio di un suo magazzino-abitazione di via San Maurizio, adagiato all’interno della bara che gli serviva da giaciglio, né le indagini, abbastanza approssimative, hanno mai condotto a una verità certa sulle reali cause della sua morte. Ciò che invece è certo è che sono spariti i suoi diari e le trascrizioni eseguite da lui delle scritte graffiate sui muri della Risiera di San Sabba all’indomani della Liberazione, che avrebbero potuto gettare una luce chiarificatrice su molti aspetti della vicenda legata all’unico lager nazista sul suolo italiano e magari anche qualche verità processuale su quanti ne portavano la responsabilità.

Spesso sulla medesima falsariga gli altri racconti raccontano di questo microcosmo giuliano, passando attraverso l’evocazione di figure rappresentative quali Julius Kugy, Franco Basaglia o James Joyce, oppure di altre meno memorabili, la più toccante delle quali è certamente Olga, assistita dai servizi psichiatrici dopo la chiusura del manicomio dov’era stata ristretta per buona parte della sua vita senza nemmeno essere stata tecnicamente “matta”, subendo psicofarmaci, letti di contenzione, elettroschock, oltre – si capisce – la privazione assoluta della libertà personale, cui l’aveva restituita negli anni della sua avanzata maturità la riforma psichiatrica codificata dalla legge 180 di quarant’anni fa.

Questi e gli altri personaggi che incontriamo su queste pagine di Jelinčič si muovono per ambienti urbani di norma periferici, in parte tuttora esistenti e in qualche caso inalterati, in parte scomparsi, come Quel campo di calcio dei sogni spezzati, dove si esercitavano diffidenze e rancori tra ragazzi di lingua italiana e altri sprezzantemente appellati s’ciavi, in ossequio a un pregiudizio etnico duro a morire ben al di là dell’infelice periodo del fascismo imperante, quando, come testimonia Boris Pahor, vi era chi teorizzava una pulizia etnica nella quale gli sloveni avrebbero dovuto essere sterminati “come cimici”. La percezione della città, nell’articolazione della sua topografia come pure nel fluire della sua storia non sconfina in Jelinčič in una tranquillizzante e cheta contemplazione di quanto di indiscutibilmente bello è rinvenibile nel suo paesaggio o di quanto di positivo è nella comunità composita che la anima: la sua è una visione che, per quanto appassionata, tiene conto di una gamma estesa e chiaroscurale di realtà spesso contraddittorie le une rispetto alle altre. D’altra parte, oltre che scrittore, Dušan Jelinčič è anche giornalista e si ritiene eticamente costretto a non celare parti o dettagli che apparirebbero stonati in una rasserenante cartolina, sapendo bene, per averlo personalmente vissuto, che essi sono invece consustanziali alla realtà della quale sceglie di scrivere. È per questa ragione che anche ambientazioni a prima vista accattivanti come la tramvia per Opicina o il popolare bagno alla Lanterna, diviso in due da un muro che tiene separati i bagnanti discriminandoli per genere, possono nascondere la premeditazione di una sanguinosa vendetta o, rispettivamente, un crudo episodio di bullismo tra adolescenti.

Tutto alla fine converge nella considerazione che «Trieste è una collana con tante perle, tutte diverse tra loro, ma ognuna con il suo fascino sempre nuovo» (p. 175). Le perle che ci descrive Jelinčič in questi suoi racconti, sono contemplate con un inestirpabile affetto per la problematica città nella quale la sorte lo ha collocato, qualcosa di simile a quanto Umberto Saba in una poesia della sua maturità definiva «della vita il doloroso amore».

 

 

Copertina:

 

Dušan Jelinčič

I fantasmi di Trieste

Bottega errante, Udine 2018

  1. 184, euro 14,00