Fratelli al massacro

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Lavoro di ricerca di un gruppo di studiosi del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste

Sono sovente i fanti sloveni, i contadini e le persone meno istruite ad assumere toni di derisione del nemico

La diserzione verso l’Italia degli sloveni arruolati nell’esercito austro-ungarico

di Fulvio Senardi

 

Come risultato del «lavoro di ricerca di un gruppo di studiose e studiosi del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste» è giunto in libreria Fratelli al massacro, a cura di Tullia Catalan, riflessione a più voci sulla figura del nemico, interno ed esterno, prima e dopo la Grande guerra. Se il volume è, in prospettiva generale, ricco di spunti e contributi stimolanti (sull’antislavismo, soprattutto di area giuliana, sulle rappresentazioni del nemico al cinema, su patriottismo e immagine del nemico nel contesto europeo), la sezione più densa di suggestioni innovative è quella in cui Marta Verginella e Miran Košuta sondano le reazioni del mondo sloveno – e siamo ad un tema che riguarda da vicino noi triestini di lingua italiana – di fronte ai problemi identitari e di posizionamento ideologico-politico suscitati dallo scoppio della Prima guerra mondiale. In primo luogo, se non esclusivamente – così come prevede il taglio della miscellanea – presso coloro che indossarono la divisa imperial-regia. Una tematica inusuale per la storiografia italiana, tanto per ragioni di lingua quanto per una certa difficoltà ad affrontare argomenti fino a ieri tabuizzati, perché ancora sfiorati dal fascio d’ombra di imbarazzi e reticenze, nonostante l’atmosfera di apertura e di reciproco rispetto che finalmente si respira nel bi-nazionale oriente d’Italia. Ma vediamo innanzitutto il saggio di Marta Verginella, Il nemico e gli altri nelle fonte slovene della Grande Guerra, una storica che ha all’attivo importanti contributi sul terreno interculturale delle relazioni fra mondo italiano e mondo sloveno nella Venezia Giulia. Molti, anche se non tutti di freschissima novità, i suggerimenti che essa ci propone. A partire da un’analisi di fondo della società slovena di fronte alla guerra, che vede contrapporsi al «sufficiente entusiasmo [della] stragrande maggioranza della popolazione slovena» e alla sostanziale approvazione della guerra da parte del partito clericale o popolare, la forza politica egemone del mondo sloveno guidata da dirigenti come Janez Krek e Ivan Šušteršič, l’atteggiamento più cauto e distaccato della stampa liberale e di quella socialdemocratica. Con il risultato che «l’atmosfera persecutoria nei confronti del nemico interno colpì soprattutto le ristrette cerchie di intellettuali sloveni ostili all’impero e al predominio tedesco nella compagine asburgica», coloro, in altre parole, che si erano dimostrati più sensibili al richiamo dell’ideologia jugoslavista. Sondando poi i depositi della memorialistica relativamente al tema del nemico esterno, Verginella ha buon gioco a dimostrare che «sono sovente i fanti sloveni, i contadini e le persone meno istruite ad assumere toni di derisione del nemico», mostrandosi i più permeabili alla propaganda di guerra asburgica. Qui emergono con maggiore evidenza e meno freni autocritici «gli stereotipi sloveni degli italiani […] caratterizzati da un atteggiamento di superiorità e disprezzo che parte dalla convinzione di far parte di un mondo d’influsso germanico, connotato dall’ordine e dalla diligenza agli antipodi del temperamento mediterraneo», mentre, per ovvie ragioni di identificazione etnica, «nelle scritture autobiografiche slovene in generale sono assai rare la stigmatizzazione e la denigrazione del nemico russo». È per altro evidente, Verginella lo mette in rilevo appoggiandosi alle ricerche Joanna Bourke, che la guerra amplifica l’eco di tensioni e conflitti precedenti, come, nel caso dell’area giuliano-isontina, quello ormai quasi secolare che vedeva contrapposti italiani e sloveni. Ampie conferme giungono così all’ipotesi avanzata da Antonio Sema, scomparso ormai quasi dieci anni fa, – il cui La Grande Guerra sul fronte dell’Isonzo (ultima edizione nel 2009) Verginella però non cita – che aveva suggerito quanto il dato di fatto della contrapposizione etnica, abilmente sfruttato dalla propaganda asburgica, avesse contribuito a rinvigorire la combattività delle truppe slave impiegate sul fronte isontino, le quali, non a torto, si sentivano impegnate a difendere dall’invasore italiano una terra sentita propria, quasi a tradurre in termini di contrapposizione armata l’antagonismo già metaforizzato un trentennio prima da Simon Gregorčič nella sua lirica Soči. «Se andiamo ad analizzare le forme che assume l’espressione dell’odio dei nemici da parte slovena», continua Verginella, «notiamo che essa raggiunge le sue punte massime anche nella narrazione dei soldati graduati che combattono sul fronte italiano e in particolare su quello isontino, dove il territorio italiano confina con quello austriaco e sloveno». Comunque, spiega l’autrice, la logica dicotomica delle contrapposizione netta non di rado si attenua e si incrina quando il soldato sloveno coglie in chi gli sta di fronte l’immagine della sua stessa sofferenza di uomo scagliato nella guerra, ed allora capita che il deposito di rabbia e di frustrazione trovi sfogo nei confronti degli ufficiali superiori, quelli che osservano la guerra da dietro le lenti di un binocolo o sulle carte topografiche dello stato maggiore (lo si legge per esempio nel diario di Franc Rueh), a confermare una fenomenologia dei sentimenti che trova ampi riscontri in molte opere del canone letterario della Grande guerra.

Analoghe le conclusioni del secondo saggio che brevemente discuteremo, ovvero Rinnegati di carta. Narrazioni slovene sulla diserzione verso l’Italia nella Grande Guerra di Miran Košuta, che mette sotto la lente dell’indagine «uno degli argomenti più emblematici e delicati dell’odissea bellica» degli sloveni, un tema «che non è stato finora preso nella dovuta considerazione analitica, forse perché a suo modo eticamente, politicamente e nazionalmente troppo controverso, scomodo, scabroso»: a dire, «la diserzione verso l’Italia degli sloveni arruolati nell’esercito austro-ungarico». Scrive Košuta: «l’interventismo di Vittorio Emanuele III, percepito come tradimento politico ma soprattutto i trenta denari segretamente promessi con il patto di Londra al “giuda” italiano sotto forma di territorio etnico sloveno e croato, rinfocolarono le ire nazionali contro i vicini che si trasformarono di botto, per la pubblicistica slovena dell’epoca, nei pavidi “mangiapolenta” (polentarji) di un tempo, negli odiati Lahi (Taliani)». E siamo così di nuovo al tema della guerra come difesa del territorio nazionale su cui, lo abbiamo visto, ha molto insistito Verginella. In verità gli sloveni non potevano conoscere i dettagli delle clausole segrete del patto di Londra prima del 1917 quando il governo rivoluzionario russo fece conoscere i termini del trattato (anche se parecchio era trapelato grazie ai contatti di Frano Supilo con il Ministero degli esteri zarista e le soffiate degli intellettuali inglesi filo-jugoslavi ai componenti dello Jugoslovenski Odbor). Ci voleva poco però a capire il pericolo rappresentato dalle velleità italiane di espansionismo balcanico per le terre slovene e per quelle aree miste che poco diplomaticamente gli sloveni e i croati in esilio dello Jugoslovenski Odbor cominciarono a rivendicare come territori da annettere alla futura Jugoslavia già dalla primavera del 1915. Nonostante ciò vi furono degli sloveni che, considerando inevitabile il “delenda Austria” come precondizione per il raggiungimento di finalità nazionali, scelsero, come si diceva, la diserzione verso l’Italia, per favorire la vittoria dell’Intesa. Consegnandoci, nel caso di due di loro, opere esemplari per la memorialistica e la narrativa: il Proti Avstriji (Contro l’Austria) di Ljudevit Pivko (tradotto in italiano con il titolo di Abbiamo vinto l’Austria-Ungheria) e Doberdob (in italiano: Doberdò. Gli umili nell’esercito austroungarico) di Prežihov Voranc. Romanzo quest’ultimo – il Proti Avstriji è una monumentale e dettagliata opera di memorialistica non esente da fini auto-apologetici – «eco di una concreta esperienza biografica, ma trasfigurata e nobilitata dalla forza del verbo d’arte». In esso – cediamo la parola a Košuta che evidenzia, in una breve scheda, le ragioni di interesse del libro, da collocarsi, per lo spessore umano e la statura letteraria, sul crinale più alto della letteratura di guerra – «primo portavoce del messaggio antimilitarista e umanista di Voranc è Amun Mohor, alter ego letterario dell’autore e suo raisonneur. […] L’incipit del romanzo lo dipinge come un cristo qualunque, un contadino sloveno risucchiato dal vortice bellico, […] poi però, con l’inasprirsi della disciplina, delle condizioni di vita militare, delle angherie e delle ingiustizie, crescono in lui a mano a mano l’insoddisfazione, il risentimento, la rabbia, ma anche la consapevolezza politica, nazionale e sociale, fino a raggiungere l’apice dell’aperta ribellione sui campi di battaglia in prima linea, dove Mohor matura la sua sofferta ma irrevocabile decisione finale: disertare verso l’Italia». Una scelta che apre la strada al tragico paradosso della storia slovena del primo Novecento: aver scambiato (più per costrizione che per scelta) una precaria libertà nel “Regno dei serbi croati e sloveni” sotto lo scettro dei Karađorđević con la rinuncia, a occidente, a terre abitate integralmente da connazionali e a rischio, nei decenni che verranno, di brutale snazionalizzazione.

 

Copertina:

Fratelli al massacro.

Linguaggio e narrazioni della

Prima guerra mondiale

a cura di Tullia Catalan

Edizioni Viella, Roma, 2015

  1. 307, € 29,00