I misteri della cartomante

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Carlotta de Jurco, che a 60 anni si scoprì disegnatrice notturna, fu ammirata da Benco e Pittoni, ma dove sono finite le sue opere?

di Roberto Curci

 

«La scoperta di una singolare disegnatrice che lavora dalla sera all’alba sotto la  suggestione di intime visioni»: s’intitolava così un articolo apparso sul Piccolo del 28 aprile 1937 e siglato b., cioè Silvio Benco. «Nessuno può vedere le sue opere senza rimanerne turbato» era invece il titolo di un’intervista fatta per Stampa Sera da Paolo Veronese (se ne conserva il dattiloscritto originale). «Una rivelazione nelle arti figurative» proclamava a sua volta Giani Stuparich in un testo pure dattiloscritto e forse mai pubblicato, databile al 1949. Dal canto suo Anita Pittoni intitolò «Da una cucina di via della Geppa alle sale di Palazzo Strozzi» una conversazione da lei tenuta alla Società di Minerva il 16 febbraio 1963.

Oggetto di tanto interesse e di tanta stupita attenzione era un’anziana signora triestina, Carlotta de Jurco, di professione “chiromante” (in realtà “leggeva” non le mani, ma le carte), che in età già alquanto avanzata si era scoperta artista, lei, analfabeta del disegno, grazie a un incontenibile “impulso psichico” che si manifestava nottetempo e di cui sosteneva fosse responsabile nientemeno che Michelangelo. Se il Buonarroti era, per così dire, lo spirito-guida che le pilotava la mano, lei, Carlotta, non poteva che essere Vittoria Colonna. Ne era convintissima e per queste sue certezze litigò clamorosamente con la sua migliore amica e ammiratrice, la Pittoni appunto. Una lite cui seguì una sollecita rappacificazione, tant’è vero che di proprio pugno la de Jurco scrisse nel 1937, in due paginette di testamento: «Tu sei da me dichiarata l’erede di tutti i miei disegni e potrai disporre come meglio ti piacerà».

Carlotta, che era nata nel 1871, sarebbe morta all’ospedale Regina Elena nell’ottobre del ’41. E Anita, a guerra finita, si prodigò in effetti per farla meglio conoscere, persuadendo Bernard Berenson e Carlo Ludovico Ragghianti ad allestire una sua personale alla Strozzina, centro culturale “interno” di Palazzo Strozzi, tra il novembre e il dicembre del 1949. Ben 55 conturbanti disegni della de Jurco furono dunque esposti in tre sale, a fianco delle sculture del toscano Alberto Sani.

E fu Anita a presentarla nel sobrio cataloghino, scrivendo tra l’altro: «A sessant’anni Carlotta de Jurco assisté all’improvvisa rivelazione di sé stessa […] Lavorò con ritmo febbrile e crescente fino all’ultimo. Qualche anno prima di morire volle mostrare i suoi disegni a Silvio Benco, per il quale aveva una stima e un rispetto istintivi grandissimi. Indimenticabile per me il loro primo commovente incontro, parco di parole e intenso per reciproca profonda comprensione. Benco la consigliò di fare una mostra, che Carlotta allestì con ammirevole disinvoltura nella sua casa modestissima di via della Geppa, dissimulando la cucinetta con delle lenzuola, coperte dall’alto in basso dei suoi disegni».

E difatti l’articolo dedicato alla singolare rassegna da Benco, che definì Carlotta “una primitiva moderna” negando però che agisse “per forza di medianità, di automatismo, di rapimento estatico”, iniziava così: «Meriterebbe descrivere l’appartamento minuscolo della signora Carlotta de Jurco, in via Geppa, invaso dalla folla, il pigiarsi dei visitatori su la stretta scala e sul pianerottolo, la ressa di signore, di curiosi, di giornalisti, di artisti, attorno alla disegnatrice […] Non v’era certo signora o gran signore a Trieste che avesse ieri un ricevimento così affollato». E concludeva: «Nella povertà di quest’umile casa, quanta ricchezza!».

È bensì vero che, ancor prima della mostra casalinga, nel gennaio di quel 1937 la de Jurco aveva esposto i suoi immaginifici bianchi-e-neri in una sede istituzionale perfino prestigiosa: la Casa d’Arte Bragaglia a Roma nella sede di Scalone Mignanelli a Piazza di Spagna. Si ignora se anche in questo caso sia stata la Pittoni a perorare la sua causa. Ma certamente la risonanza del suo lavoro fu ben maggiore a Trieste, dove tutta la créme cittadina si fece vedere in via della Geppa 10 tra l’aprile e il maggio di quell’anno fatidico.

Ma quali erano i soggetti di quegli imprevedibili e a modo loro inquietanti disegni? Soccorre ancora Benco, a proposito delle “sensazioni” sedimentate, a suo avviso, nell’animo di Carlotta: «Alcune paesistiche, determinatrici di una specie di poetica fantasia del paesaggio; altre che sembrerebbero accennare al teatro, con le sue boccascene, le sue quinte , le sue lombardine; ed altre ancora ci riconducono alla chiesa, agli antipendii d’altare, alle stilizzate immagini d’angeli e di santi, alle pianete, ai damaschi dei sacri parati».

Alla fin fine aveva forse ragione l’ignoto compilatore del colonnino che, sul quotidiano locale, il 23 ottobre 1941, rese noto il trapasso di Carlotta: «In verità il mistero di quei disegni, nei quali era da escludersi il trucco, non fu mai ben chiarito; e soprattutto come, non conoscendo nemmeno l’esistenza dell’arte surrealista moderna, la semplice donna fosse andata sulla traccia delle visioni che proprio i fedeli di questa scuola amano ritrarre con tecnica assai affine».

Ma un altro mistero permane. Dove sono andati a finire i disegni di Carlotta de Jurco, affidati alla Pittoni? Chi scrive queste righe ebbe, molti anni fa, una sorta di lascito da Sauro Pesante, allora direttore della Biblioteca Civica, dov’era custodito l’archivio Pittoni: una scatolina con una ventina di diapositive di altrettante opere della cartomante-artista. Bene. Ma gli originali? Se qualcuno ne sapesse qualcosa, batta un colpo.

 

 

 

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Carlotta de Jurco

Piccola chiesa

matita e carboncino

ubicazione ignota