METÀ VOTANTI PER UN DOPPIO STATO
Editoriale | giugno 2015 | Ponterosso N° 2
A poche ore di distanza dalla comunicazione dei dati relativi all’afflusso alle urne nella recente tornata elettorale delle regionali lo scorso 31 maggio, via via che si definivano i contorni delle modificazioni anche profonde nel panorama politico italiano, si riduceva fino a scomparire il dato di quella percentuale dei votanti: un risicato 53%, il che significa che ha votato poco più della metà degli aventi diritto. Sottraendo poi a quel flebile dato statistico anche il numero delle schede bianche e sommandovi ancora le nulle, la realtà denuncia una generalizzata sfiducia nei confronti dei partiti e dei rispettivi leader, che pure appaiono ingigantiti nella loro rappresentazione mediatica.
Liquidato con poche parole e facce di circostanza da politici e commentatori, il dato è immediatamente sparito dalle analisi politologiche più o meno raffinate, per lasciare il posto alle controverse interpretazioni del voto che, al solito, vedeva tutti vincitori, nello starnazzare consueto dei salotti televisivi, mentre in effetti quanto in primo luogo andrebbe posto in risalto è il fatto che l’astensionismo è indicatore della divaricazione sempre più accentuata tra la classe politica, vissuta dagli elettori come una casta estranea e arrogantemente protesa a tutela dei propri corporativi interessi, e il corpo elettorale, che non si sente in grado di esprimere una preferenza, evidentemente perché rassegnato all’idea che conferire all’uno o all’altro la vittoria elettorale non avrebbe alcun effetto, o ne avrebbe di poco apprezzabili, sui problemi che quotidianamente deve affrontare il singolo e la sua famiglia.
Nei giorni immediatamente successivi, un’altra ondata di arresti nell’ambito dell’inchiesta cosiddetta di “Mafia Capitale” sembra rafforzare il convincimento di quanti ritengono che questo Paese sia minato nelle fondamenta stesse della sua natura di stato di diritto.
«Davanti ai nostri occhi si è aperto un abisso che la parola corruzione descrive solo parzialmente – afferma Stefano Rodotà in un’intervista al Manifesto pubblicata il 5 giugno – Mafia Capitale conferma l’esistenza di un sistema parallelo che permette solo ai poteri criminali di approvvigionarsi alle risorse pubbliche per lucrare sugli immigrati, sui rom, su tutti coloro che andrebbero tutelati con la solidarietà pubblica e civile. La solidarietà si è capovolta in un’opportunità di arricchimento di un ceto che esercita poteri extralegali o del tutto extralegali». L’anziano intellettuale fa poi riferimento alla circostanza secondo la quale, allorché venne alla luce il caso della loggia P2, si adoperò l’espressione “doppio stato” in riferimento a quello che le inchieste mettevano progressivamente in luce riguardo a quell’organizzazione eversiva. Prosegue dunque Rodotà: «Mafia Capitale ci mette di fronte ad un doppio stato. E questo non è avvenuto solo a Roma. Il doppio stato oggi è un modo consolidato di gestire lo stato. Lo abbiamo visto all’opera all’Expo, al Mose, e in altre città. L’illegalità non è un fenomeno marginale, è centrale nella vita dello Stato».
Con ogni evidenza l’astensionismo crescente ha origini e motivazioni che debordano rispetto a quelle del rifiuto del “doppio stato” dell’inquietante analisi di Rodotà, ma è altrettanto chiaro che i due fenomeni confluiscono in una stessa sfiduciata visione della cosa pubblica che è ormai condivisa dalla maggioranza assoluta degli Italiani. Ostinarsi a non prenderne atto da parte del ceto politico, anziché assumere un diverso atteggiamento culturale nei rapporti tra amministratori e amministrati oltre che attuare concrete iniziative legislative che contrastino la corruzione avrà come sicuro effetto un ulteriore scollamento tra la classe politica e i cittadini, i cui esiti finali non sono al momento immaginabili, ma certo sarebbero tali da amplificare ulteriormente una deriva etica e politica della quale l’Italia non ha, di certo, alcun bisogno.