I molti mondi di Andrea Comisso

A pochi mesi di distanza dal volume d’esordio, altri racconti dell’autore triestino vedono la luce con Il contraccolpo dell’abisso

di Walter Chiereghin

 

Soltanto qualche mese fa, nel numero di settembre dell’anno scorso, avevamo salutato l’esordio di un nuovo scrittore triestino, Andrea Comisso, che aveva presentato allora, come opera prima, trentasette racconti brevi, Oggi le nuvole regalano una tregua. Tentando una valutazione complessiva delle plurali narrazioni raccolte in quel volume, avevo parlato in quell’occasione di «un’esplosione di prose che all’apparenza narrano tutt’altro, ma nelle quali non è difficile individuare l’eco di un pensiero scaturito da esperienze vissute e da molte altre immaginate, da angosce e paure, da valutazioni critiche, ma anche da considerazioni etiche che hanno trovato in una narrazione spesso esplicitamente metaforica lo strumento comunicativo più efficace ed adeguato per arrivare ai lettori, ma anche probabilmente per manifestarsi con maggiore evidenza allo stesso autore».

Adesso, a pochi mesi da quella prima prova, Comisso ritorna sui suoi passi, proponendo Il contraccolpo dell’abisso. Il titolo della raccolta è quello del racconto eponimo, la storia raccontata «con molte licenze narrative» del dottor Geppino Micheletti, eroico medico che rimase a soccorrere i feriti della strage di Vergarolla, anche dopo aver riconosciuto tra le vittime i propri figli.

Il nuovo volume propone una dilatata espansione dei contenuti narrativi offerti al suo pubblico nella precedente occasione d’incontro.

Rimane inalterato il ricorso alla forma del racconto breve, che in questa seconda raccolta si articola in settantadue episodi, a prima vista privi di ogni connessione tra essi, ma in effetti poggianti, nella generalità dei casi, su fantasiose divagazioni attorno alle paure e alle angosce opportunamente sottaciute – per l’esigenza di tirare avanti – nella vita reale di ciascuno di noi, e tuttavia persistenti sotto la superficie apparentemente cheta e rasserenante della nostra percezione e della stessa nostra consapevolezza. Il racconto si piega dunque a una sorta di esorcizzazione di quanto di più inquietate emerge – raramente prendendo la forma di un pensiero strutturato razionalmente – dal subconscio o anche, più semplicemente, da ciò che sappiamo perfettamente, ma che preferiamo fingere a noi stessi di ignorare.

Il tutto viene confezionato sulle onde di una fantasia inesauribile, rappresentata mediante una prosa fluente e discorsiva, libera, disinibita o addirittura sboccata quando occorra, La serietà o talvolta la drammaticità delle situazioni rappresentate viene il più delle volte stemperata o resa più serenamente digeribile grazie al ricorso all’ironia, spesso anzi a un’esplicita autoironia. Essa consente al lettore di voltare la pagina con l’ombra di un sorriso sul volto, prima di immergersi di nuovo in un’altra situazione narrativa che lo condurrà, attraverso un sentiero tutt’affatto diverso, a riprendere il filo interrotto di una messa in scena di storie che, per quanto eterogenee e surreali, parlano di noi stessi, delle nostre ansie, delle nostre inadeguatezze, dei paradossi entro i quali ci moviamo, come singoli e come società. Non bisognerebbe perdere di vista questa considerazione, cioè che i racconti parlano quasi sempre di noi stessi, della nostra paura della morte, della vecchiaia, di non essere riconosciuti dagli altri, della malattia, dell’insuccesso, giù giù fino alla consapevolezza di essere componenti inessenziali di meccanismi più grandi di noi, asserviti a un consumismo pervasivo, esposti ai danni esistenziali dell’abbandono, del lutto, della seduzione e di chissà quant’altro. E ciò anche quando il protagonista del racconto – come spesso scopriamo soltanto alla fine – è del tutto diverso da noi: un omicida, una cleptomane, il pontefice, un tarlo, una coppia di automi, un oggetto riposto in un magazzino

Il tono surreale che spesso impronta di sé alcuni racconti si rende disponibile a camuffare appena velatamente l’inquietudine che deriva dalla possibile perdita di qualcosa di essenziale, ad esempio la stessa identità personale, come avviene nell’incubo pirandelliano di Dove eravamo rimasti? Ah, sì… le nuvole, nel quale l’autore che si accinge a presentare al pubblico la sua opera prima vede prendere il suo posto da un perfetto sconosciuto, che si accaparra applausi e consensi, anche dai familiari dello scrittore che si è visto espropriato del suo lavoro e della sua stessa identità, costretto quindi ad adeguarsi fino al punto da mettersi in fila per garantirsi un autografo dell’intruso sul frontespizio di una copia del suo stesso libro. E poche pagine dopo, a parti invertite, è invece l’autore che si impossessa illegittimamente dell’identità – anzi più che altro della bibliografia – di Dino Buzzati, in Fatti più in là, che è il sogno del furto di una gloria letteraria alettante quanto immeritata e, assieme, un tributo all’autore bellunese, cui largamente l’opera di Comisso s’ispira, come avverte egli stesso e, nella prefazione, Nino Orlandi.

Anche il progresso scientifico e tecnologico ha una sua parte tra gli incubi, com’è negli irresponsabili abusi di un imbecille che si fa innestare sottopelle una quantità di microchip e sensori dei quali alla fine rimarrà vittima – purtroppo assieme al suo incolpevole cane – nel fantascientifico, ma ormai ancora per poco, racconto Anche il cane? Che bastardo! La tecnologia è anche chiamata in causa in Waiting Room, che ipotizza una provvisoria sopravvivenza di quanti, post mortem, si ritrovano a condividere in una sala d’attesa che è la proiezione della rubrica di uno smartphone il cui proprietario non si risolvere, forse per una forma contemporanea di pietà, a cancellare i riferimenti ad amici e parenti scomparsi. E ancora, in Suscettibile, la soluzione di una catena di omicidi all’apparenza privi di alcun collegamento tra essi, fino a scoprire che tutte le morti hanno avuto come movente l’improvvida decisione assunta nella gestione del proprio account sui social da ciascuna delle vittime.

Per lo più ispirati a una confessione autobiografica, alcuni testi della raccolta esulano dagli schemi dei quali abbiamo fin qui parlato, per dar conto di una riflessione circa la stessa attività dello scrivere, nella quale Comisso rappresenta se stesso alla tastiera, meravigliato quasi, lui per primo, di quanto lo sospinge ad esprimere, attraverso lo strumento della scrittura, questa frazione della sua attività che sembra farsi sempre un po’ meno secondaria nel suo agire.  Nasce così un dialogo con chi lo legge, com’è ad esempio in Col mondo davanti: «In questa cosa, nella scrittura, siamo tutto ciò che ci pare, siamo maschi, femmine, eroi, assassini, materia, antimateria, caos primordiale, dio, animali, astronavi, spiriti, oggetti.

Siamo davvero liberi.

E poi, quando ripiombiamo giù, se abbiamo buona sorte – io che scrivo e tu che leggi – alla fine rimaniamo entrambi in silenzio a riflettere su quel che ho scritto, su quel che hai letto».

Potrebbe essere la più calzante e opportuna presentazione dell’opera narrativa – effervescente e anche torrenziale – di Comisso, che tra l’altro capovolge a favore della scrittura il famoso aforisma di Umberto Eco secondo il quale «Chi non legge, a settanta anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto cinquemila anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’Infinito. Perché la lettura è un’immortalità all’indietro».

 

 

Andrea Comisso

Il contraccolpo dell’abisso

Hammerle editori, Trieste 2023

  1. 240,euro 18,00