I pionieri triestini dell’ibsenismo

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In un saggio di Paolo Quazzolo la ricezione in ambito critico giuliano dell’opera del drammaturgo norvegese

di Fulvio Senardi

 

«Tutti discutevano la stagione, […]. Parlavano calorosamente di Ermete Zacconi. […] Facevano Gli Spettri. La commedia ibseniana aveva furoreggiato, forse per l’interpretazione eccellente, forse per moda – poiché pochi avevano realmente inteso l’alto significato filosofico e fisiologico del dramma – ed ora, dopo tante sere, la folla su nel loggione, batteva i piedi, impaziente che si alzasse il sipario. Maria Lamberti-Dina […] non aveva mai udito Gli Spettri. Alla prima rappresentazione, o a due o tre altre, per l’efficacia con la quale il simpatico attore rende la figura di Oswaldo Alwing, c’erano stati svenimenti, convulsioni; tanto che all’invocazione suprema del protagonista:- Mamma … il sole, che Ermete Zacconi dice insuperabilmente, avevano dovuto calare la tela, per tema di guai. Così Maria non ci era mai stata, temendone l’impressione troppo forte, ma ammiratrice entusiasta di Zacconi, all’ultima recita non aveva voluto mancare. […] Ora si lasciava prendere tutta dall’interesse del dramma. La figura di Osvaldo si staccava sempre più netta, sempre più viva dai personaggi di contorno. E l’onestà di Elena Alwing e del pastore Manders, come le ferivano il cuore, quale rimpianto le davano! Eppure erano infelici anche loro, infelici come lei stessa […]. Sulla scena Oswaldo Alwing raccontava alla madre la sua malattia, e con accento straziante le confessava di non poter più lavorare… Un fremito passò nel teatro; nei palchi, dei visi femminili, si gettarono indietro impallidendo. Scossa fino al fondo dell’anima, Maria guardò Vargas. […] Ugo, che era rientrato, proponeva di andarsene, perché quella commedia era troppo triste».

È certo irrituale iniziare una recensione con una lunghissima citazione da un romanzo dimenticato. Si tratta in effetti di una porzione sostanziosa del secondo capitolo della terza parte della Maria Lamberti (1895), il primo romanzo di Willy Dias. Una bella testimonianza di come venisse accolto Ibsen, quando ancora il suo nome provocava perplessità e polemiche, nella Trieste colta dell’ultimo Ottocento. È interessante notare che Willy Dias, così puntuale nell’indicare la finestra temporale della vicenda romanzesca (con allusioni che non sfuggono: Baratieri sconfigge Ras Mangascià e Casimir-Perier si dimette da presidente, siamo quindi nel 1895), posticipa di due anni la rappresentazione di Spettri (ebbe luogo nel 1893), per poterla inserire nel racconto. Tanto forte l’impressione che Fortunata Morpurgo (Willy Dias nell’arte) dovette ricavarne, tanta l’importanza dell’evento per la vita culturale della città, come per l’intimo sentire della protagonista del romanzo.

Ma a cogliere meglio il senso di tutto ciò, aiuta indubbiamente Paolo Quazzolo, con Trieste e il caso Ibsen. Negli otto capitoli del volume, preceduto da una bella presentazione di Franco Perrelli, Quazzolo, che insegna a Trieste Storia del teatro, ripercorre le tappe della ricezione di Ibsen a Trieste, tanto a livello di pubblico quanto nella visione di alcuni intellettuali di spicco, Benco, Boccardi, Michelstaedter, Slataper, Sternberg; capace il primo, grazie al suo ruolo di critico teatrale presso L’Indipendente, di influenzare, anche nell’immediato, il gusto di un pubblico che, a Trieste come negli altri teatri di lingua italiana, non si mostrò inizialmente pronto a recepire la novità di Ibsen, coglierne gli stimoli intellettuali, capire la sua visione del mondo e la sua idea di teatro; impegnati piuttosto gli altri in riflessioni “solitarie”, ancorché, con l’eccezione di Michelstadter, capaci di far avanzare con i loro saggi l’elaborazione critica intorno ad Ibsen ed alla sua opera. E sono stati loro in effetti a gettare il seme per la comprensione profonda di una drammaturgia sempre tesa fra simbolo e realismo, fra analisi di sé e scavo pregiudicato nel cuore dell’uomo, tra tensione individualistica ed attenzione (portata da un occhio tagliente e spesso spietato) alle consuetudini sociali (quella dimensione dell’esistere che, qualche anno dopo Casa di bambola, 1879, Max Nordau, un “dissacratore” anch’egli come Ibsen, avrebbe visto dominata dalle “menzogne convenzionali”): un’arte teatrale, insomma, che, pur chiave d’accesso al “nuovo” che il Novecento prometteva,  stentava a “farsi capire”, quando cominciò a filtrare in Italia al crepuscolo del secolo, per riassumere con un solo concetto (lo si deve al critico del Piccolo, all’indomani del debutto del Costruttore Solness il 20 marzo 1894) il non inusuale sconcerto delle platee.

L’eroe, per così dire, dei primi capitoli del Quazzolo, è, come si è già intuito, Silvio Benco, il grande “magister” del gusto letterario di una città-crocevia, Trieste, vocata per la sua complessità etno-culturale a una più agevole comprensione dell’arte nordica, almeno negli ambienti più preparati dell’elite cittadina. Benco capisce, approfondisce, spiega (qualche volta bacchetta da pedagogo severo, come quando stigmatizza il titolo italiano di Rosmersholm, La fattoria Rosmer, che profuma, con effetto ben ridicolo, di pastorelleria). È, in fondo, il gran cerimoniere del drammaturgo di Skien in terra giuliana, colui che, grazie all’ampia conoscenza dell’opera del norvegese, riesce a collocare nella giusta prospettiva pièces che da noi giungono, come peraltro è ovvio che sia, in ordine confuso (e in traduzioni spesso pessime), riportando ciascuna di esse alla totalità di un disegno complessivo, di una coerente evoluzione. Una sorta di bilancio, Quazzolo lo mette bene in evidenza, è rappresentato da tre interventi successivi di Silvio Benco che riflette non solo sulla qualità intellettuale e drammaturgica dell’opera di Ibsen, ma spiega quella freddezza e incomprensione da parte di consistenti settori di pubblico e di critica, che andava solo lentamente mitigandosi. Prendendo la parola sull’Indipendente, con ambizioni di sintesi, il 21 marzo 1898, quindi il 9 aprile 1900, in occasione dell’uscita, sulle scene europee, di Quando noi morti ci destiamo, infine, sul Piccolo della sera questa volta, il 27 maggio del 1906, qualche giorno soltanto dopo la morte del genio norvegese, Benco non cessa di esaltare, con argomentazioni sempre più ricche e articolate, una figura d’artista apportatore di uno “spirito nuovo”, che schiaccia i drammaturghi suoi contemporanei con la “sua”  modernità che grandeggia di fronte alle loro modernità scolastiche e puerili”.

Mentre Benco conduceva la sua battaglia giornalistica a favore di Ibsen, Alberto Boccardi, intellettuale e scrittore triestino di area irredentista, dava alle stampe, nel 1893, La donna nell’opera di Henrik Ibsen, una monografia che riproduceva il testo di alcune conferenze tenute in città. Il libro, ancorché smilzo, «si rivela», spiega Quazzolo, «come un’organica riflessione sul teatro di Ibsen», a partire dall’«intuizione fondamentale [del] riconoscimento della dimensione simbolica adottata» dall’artista norvegese nelle sue opere. Ritagliarsi poi uno spazio critico sul tema della figura femminile, mostrava la capacità di Boccardi di comprendere la centralità, sia in senso drammaturgico che, potremmo dire, etico e spirituale che Ibsen assegnava alla donna nel suo teatro (lo avrebbe certo confortato nella sua intuizione sapere che un editore berlinese aveva pubblicato, nel 1891 con data 1892, il libro di soggetto analogo di Andrea Lou Salomé, Henrik Ibsens Frauen-Gestalten, ovvero Le figure femminili di Henrik Ibsen, una riflessione particolarmente attenta, come ci si poteva aspettare da una donna emancipata, al tema della possibilità di auto-realizzazione della donna moderna nella società e nel matrimonio). Come nel caso della Salomé, anche Boccardi è particolarmente attratto dalla protagonista di Casa di bambola (Nora, sulle scene tedesche, come a esplicitare la centralità del personaggio feminile), la cui scelta radicale, abbandonare marito e figli, aveva disorientato, se non scandalizzato il pubblico europeo (in Germania, alla prima berlinese, su richiesta dell’interprete Hedwig Niemann-Raabe, la conclusione del dramma era stata addirittura rimodellata in un happy ending: la protagonista, passando davanti alla cameretta dei figli, sviene, senza poter dunque varcare la soglia di casa). E Boccardi? «Per quanto discutibile, l’ardita ed improvvisa soluzione», afferma «è l’unica che dia ragione alle intenzioni dell’autore». Insomma, lascia capire Boccardi (con un assenso, ipotizzo, estetico ma estraneo al suo orizzonte morale), Nora è capace di ridefinire, in termini certo scandalosi per la società ancora molto tradizionale di fine Ottocento, il ruolo della donna come moglie e madre. È una ribelle e, in quanto tale, deve strapparsi dal cuore la vena degli affetti, contrapporre all’ipocrisia patriarcale un’intransigenza che potrebbe apparire disumana.

Altro discorso per il goriziano Carlo Michelstaedter, le cui osservazioni ibseniane si leggono in scritti non destinati, primariamente, alla pubblicazione: riflessioni di un intellettuale che va maturando una visione del mondo originale e presto inconciliabile con la società del suo tempo. I drammi di Ibsen hanno anche su di lui un forte impatto, a partire da una concezione del teatro che vi riconosce una funzione demistificatoria ed educativa, tanto che, a suo avviso, «Ibsen risulta essere uno dei grandi modelli da seguire, uno dei punti di riferimento per l’uomo di inizio Novecento» (Quazzolo). Particolarmente intensa appare la sua reazione agli Spettri, visti a Firenze, con Gustavo Salvini come protagonista. Appuntamento appassionante e deludente insieme, perché se Ibsen lo affascina non lo convince l’interpretazione salviniana, per il fatto che, afferma, «le sofferenze descritte dal dramma non sono fisiche ma morali». Se poi pensiamo alle più recenti acquisizioni biografiche del giovane filosofo, «il dolore straziante per vedersi rotta l’esistenza, per vedersi condannato a una vita miserabile, il terrore di poter rimbambire» (Michelstaedter) di Osvald, che vede crollare, insidiate dalla malattia, le sue ambizioni d’artista, assume il significato tragico di una cupa premonizione.

Il capitolo dedicato all’Ibsen di Scipio Slataper, il seguente, è sicuramente l’impegno più difficile e più felicemente risolto del libro, per la frequenza di «passaggi ove emerge un linguaggio di stampo poetico e una proiezione più scopertamente autobiografica». Un libro insomma, che per certi suoi risvolti, si nega ad una lettura piana ma va, per così dire, interpretato. In questo che è il primo studio organico sull’Ibsen drammaturgo apparso in Italia, Slataper, che riprende in mano, modifica e approfondisce la tesi di laurea, mette infatti tutto se stesso, con una identificazione morale che accentua la tensione empatica della lettura, quasi che interpretare Ibsen significasse anche compiere un atto di analisi e di riconoscimento nei confronti di se stesso. Non seguiremo passo passo, accompagnando Quazzolo, tutti gli snodi critici del capitolo. Colpisce la centralità, nella lettura di Slataper, di Casa di bambola e, ancor di più, il negativo giudizio finale su un artista di cui non viene negata la grandezza: «mancò l’amore a questo grande poeta della vita morale» (Slataper); giudizio che scaturisce da una profonda riflessione sull’ultima creazione drammaturgica, Quando noi morti ci destiamo, in cui Slataper legge la manifestazione della «colpa della poesia verso la vita» (e non è stato in fondo simile, sia pure solo di intenzione, il “peccato” del giovanissimo Scipio nei confronti di Gioietta?).

Segue quello su Slataper un capitolo che approfondisce la riflessione ibseniana di uno studioso del tutto dimenticato, Federico Sternberg; un triestino laureatosi a Bologna con Pascoli (cui rimase legato da vincoli di stima e d’affetto) e quindi dal 1919 docente nella città natale, autore di una monografia su Ibsen, pubblicata nel 1931 dopo averla tenuta una decina d’anni nel cassetto. La lettura dell’opera del norvegese è meno personalisticamente intonata che in Slataper, il quale forza sempre verso un “oltre” di ansie filosofiche, intellettuali, morali i confini dell’interpretazione, e risente del nuovo clima culturale del Dopoguerra, tanto da mettere in opera – la prospettiva è indubbiamente originale, ed è opportuno che Quazzolo l’abbia evidenziato – la categoria pirandelliana dell’“umorismo”: «man mano che il poeta si avvicina al palpito più profondo del cuore umano nella sua colpa […] si delinea quel sorriso dolorosamente amaro, aspro, crudele – e rassegnato. […] È l’umorismo ibseniano». Una sorta di “sentimento del contrario” dunque, per restare a Pirandello, ma che si dispiega sul versante etico-esistenziale. Ibsen, conclude Sternberg, «ci conduce dinanzi ai problemi più terribili con sicura mano, e noi, dinanzi alla serietà della vita sentiamo nel cuore una sicurezza indelebile, incrollabile, e sentiamo di poter amare tutto questo mondo dolorante, questa necessità ineluttabile». Un bilancio dunque, se vogliamo, opposto a quello di Slataper, che giudica Ibsen scarso di afflato amoroso verso la vita (e quindi incapace di suscitarlo). In entrambi per altro, Sternberg e Slataper – ed è curioso, visto il periodo ed il contesto delle loro interpretazioni – nessuna “sbavatura” psicanalitica, con il risultato che il sondaggio esplora i meandri della coscienza ma raramente, e senza agganci freudiani, quelli della psiche (a titolo informativo ricorderemo che Freud scrive, nel 1916, pagine interessanti su Rosmersholm, rintracciando nella figura della protagonista – come stupirsene? – un irrisolto nodo edipico).

L’ultimo capitolo e conclusione è quasi una postilla ai margini del lungo discorso fatto. Dopo la soglia del Novecento Ibsen cessa di rappresentare uno scandalo e una sfida per il pubblico, essendo ormai entrato nel pantheon degli scrittori “canonici”. A questo proposito non possiamo che riferire le parole pronunciate da Benco in una memorabile serata del 1905, a Trieste, a latere della rappresentazione di Rosmersholm che la Duse (anche traduttrice in questo caso) volle portare in solo tre città italiane, oltre che nella nostra, a Milano e a Torino: Ibsen è stato «il più lucido e chiaroveggente spirito che mai prendesse la vita a suo esperimento e il teatro a suo esempio». Tanto brillante nel firmamento artistico della fine di secolo da lasciare tracce – qui il discorso di Quazzolo si fa veloce ma, come si è detto, è una coda in epilogo – in Svevo, in Joyce e nella riflessione di Falco Marin, il figlio di Biagio, vero continuatore ed erede, per curiosità intellettuale e scavo di sé nello specchio dell’arte, dei grandi pionieri triestini dell’ibsenismo.

 

 

Paolo Quazzolo

Trieste e il caso Ibsen

Polemiche e dibattiti

fra Otto e Novecento

Marsilio, 2020

  1. 230, euro 13.50