Carpaccio: Venezia mascherata da Roma

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Riflessioni sui teleri del ciclo di Sant’Orsola, recentemente restaurate e conservate presso le Gallerie dell’Accademia

di Nadia Danelon

 

Tra i maggiori pittori veneziani vissuti a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento, c’è Vittore Carpaccio: un autore semplice solo in apparenza, che in realtà nelle sue opere nasconde un universo fatto di favole e prospettive dove la vera protagonista è sovente Venezia stessa. Come è stato ricordato dagli studiosi, non si può certo affermare che la rappresentazione della città da parte del Carpaccio sia sempre precisa o ancora meglio vicina alla realtà: egli può essere considerato come un vedutista “ante litteram”, ma principalmente di luoghi fantasiosi popolati da molte sgargianti figure. Tuttavia, quello che egli intende evocare è spesso lo stesso luogo: Venezia. Come lo fa? Attraverso la magia che la contraddistingue, presentando ai contemporanei e ai posteri tutti quei riferimenti culturali del suo tempo che egli ha saputo sintetizzare nelle sue opere.

Carpaccio indaga, studia: si palesa così come un autore perfettamente consapevole della cultura umanistica della sua epoca, coinvolto nella stessa a tal punto da essere definito da Roberto Longhi come “in apparenza il più confidenziale, ma nel fondo è più complesso d’ogni altro pittore veneziano del Quattrocento dopo il Bellini, con una legatura che pochissimi intendono”.

Così, Vittore Carpaccio finisce per incarnare la cultura artistica del Quattrocento, con una spiccata autonomia rispetto ai suoi colleghi: si distingue infatti dai più anziani Bellini e Vivarini, che aprono la strada che conduce fino al grande avvento di Giorgione e Tiziano. Carpaccio, nonostante si dimostri consapevole dei risultati dei pittori suoi contemporanei (è stato evidenziato, ad esempio, come egli abbia studiato e riprodotto l’immediatezza rilevabile nelle composizioni dei teleri di Gentile Bellini a Palazzo Ducale), si distingue per una scelta che lo associa idealmente ad artisti quali l’Alberti, Piero della Francesca e Antonello da Messina. Le sue opere costituiscono un sapiente studio di architettura e prospettiva.

La sua evoluzione è particolarmente evidente nel celebre ciclo di sant’Orsola: il primo tra quelli che gli sono stati commissionati dalle congregazioni (Scuole) veneziane. Carpaccio è un celebre autore di teleri: dipinti di grandi dimensioni, protagonisti della produzione artistica veneziana dalla seconda metà del Quattrocento. Più pratici rispetto agli affreschi, perché il pittore può lavorarvi rimanendo nel proprio studio, sono anche le prime sperimentazioni della tecnica ad olio (appresa dai maestri fiamminghi) su tela, quando fino a quel momento era applicata su tavola.

Gentile Bellini, così come il più giovane Carpaccio, è uno dei maggiori autori di queste tele di grande formato. Il concetto di teleri utilizzati come supporto per la realizzazione di cicli pittorici narrativi si applica bene sia in realtà di rappresentanza come quella di Palazzo Ducale (la decorazione della Sala del Maggior Consiglio, commissionata a Gentile Bellini nel 1474), sia ad ambienti di dimensioni più ridotte quali sono appunto quelli delle Scuole minori che Carpaccio è chiamato a decorare.

Le opere, in cicli come quello di sant’Orsola, sono fatte per essere viste da vicino: emerge così una particolare attenzione anche al più piccolo dettaglio, tanto da creare smarrimento nel pittore che si accosta all’opera.

Carpaccio è, quindi, la “cartina di tornasole” della pluralità di interessi culturali che confluiscono nella Venezia della sua epoca: nelle sue opere raccoglie un po’ di tutto (scritte in ebraico perfettamente traducibili, spartiti musicali, elementi d’arte e simbologia antichi e moderni), tanto da riuscire a creare delle sintesi notevoli come il San Girolamo nello studio di San Giorgio degli Schiavoni.

La fama di Vittore Carpaccio finisce per tramontare poco dopo l’inizio del nuovo secolo (il Cinquecento), quando le sue opere non si dimostrano più all’altezza delle aspettative derivanti dal gusto sempre aggiornato della Serenissima. Inizia quindi a lavorare per la provincia, l’Istria, dove la sua produzione è ancora apprezzata. Muore infatti a Capodistria nel 1526.

Quindi, come si è visto, un filo conduttore della sua carriera artistica è la bella, trionfale, Venezia di fine Quattrocento. Ma quindi (e la domanda sorge spontanea) come può realizzare in modo verosimile delle ambientazioni alternative, senza abbandonare il fascino misterioso della sua città natale?

Lo fa, riuscendoci perfettamente, perché è in grado di “mascherare” Venezia con dettagli appartenenti ad altri luoghi. Tuttavia, così come una persona mascherata viene tradita dalla sua maniera di atteggiarsi, allo stesso modo è facile riconoscere un’ambientazione veneziana sotto “mentite spoglie”. Tutto questo processo fa parte delle scene più celebri del ciclo di sant’Orsola.

Recentemente restaurate, le opere fanno parte delle collezioni delle Gallerie dell’Accademia di Venezia: il ciclo è composto da nove tele di grandi dimensioni che comprendono anche la pala d’altare con l’apoteosi della santa. Dal 1920 sono esposte in un’unica sala, dove è riproposta nel modo più fedele possibile la disposizione delle opere nell’Oratorio di Sant’Orsola. La Scuola minore è ricordata in Campo Santi Giovanni e Paolo, proprio di fianco alla raggiera composta dalle cinque absidi del presbiterio della basilica. La storia di sant’Orsola, che Carpaccio raffigura secondo il racconto della “Legenda Aurea” di Jacopo da Varagine ed integrandola con particolari derivanti da altre tradizioni e dai precedenti cicli pittorici, può essere quella riassunta di seguito.

Orsola, figlia del re cristiano di Bretagna (Noto), viene chiesta in sposa da Etereo, ovvero il figlio del re pagano d’Inghilterra. Orsola accetta, ponendo però tre condizioni: Etereo deve farsi cristiano, devono esserle assegnate 11.000 vergini e con loro (e il promesso sposo) deve esserle consentito di visitare i maggiori santuari d’Europa nel corso di tre anni. I suoi desideri vengono esauditi. Orsola intraprende così il suo viaggio, giungendo naturalmente anche a Roma: qui, la comitiva viene accolta da papa Ciriaco che, rimanendo colpito dalla scelta di Orsola, decide di abbandonare la sua carica e unirsi alla comitiva dei pellegrini. Tuttavia, i due romani Massimo e Africano, infastiditi dal comportamento di Orsola, inviano un messaggio ad Attila che con l’esercito degli Unni ha assediato la città di Colonia: i pellegrini sono in arrivo e devono essere eliminati. Orsola, prima di partire da Roma, sogna: un messaggero divino le annuncia il suo martirio. Ella giunge infine con il suo seguito a Colonia, dove lei sola può avere la possibilità di salvarsi: Attila si è invaghito di lei e desidera che Orsola diventi la sua sposa. La santa non accetta e viene assassinata.

Il penultimo telero del Carpaccio comprende infatti l’immagine del martirio dei pellegrini e i funerali della santa: si tratta, quindi, di una sequenza di episodi consecutivi riprodotti su di un solo supporto, secondo una consuetudine molto in voga all’epoca. In questa opera compare però un riferimento alle circostanze altrettanto tristi che il territorio della Serenissima sta vivendo in quel periodo: al centro della scena c’è una figura di moro, facente parte dell’esercito. Perciò, secondo un’interpretazione accettata dalla maggior parte degli studiosi, i biondi Unni non sono altro che i Turchi invasori che all’epoca del Carpaccio seminano panico e morte ovunque passino.

Analizzando nel dettaglio due scene del ciclo, realizzato tra il 1490 e il 1498 (le opere, prodotte non tenendo conto dell’ordine cronologico sono state collocate nell’oratorio in tempi diversi), emerge quanto illustrato in precedenza: nell’Incontro dei pellegrini con il papa a Roma e nel Sogno di sant’Orsola, l’Urbe non è altro che una Venezia mascherata.

Osserviamo la prima delle due scene: nella composizione, almeno in apparenza, non sembra esserci alcun riferimento alla città lagunare. Si nota, infatti, la maestosa struttura di Castel Sant’Angelo (il mausoleo di Adriano trasformato in fortezza) accompagnata da alcuni riferimenti ai monumenti dell’antichità: la cuspide della Meta Romuli (una piramide decorata, sulla sommità, da una sfera che secondo la leggenda avrebbe contenuto le ceneri di Romolo) e una colonna coclide sormontata dalla statua di una divinità pagana. Nulla, quindi, vieta ad un qualunque osservatore di ritenere che la scena sia ambientata a Roma: tanto più che, proprio al centro della composizione, vediamo il papa intento ad accogliere i promessi sposi e le undicimila vergini accompagnato da una processione di vescovi. Attenzione però, perché proprio dai dettagli del corteo pontificio emerge la mal celata Venezia: i numerosi vessilli precedono qui il papa, come nella realtà avviene con il doge. Anche la presenza del trombettiere e la foggia dell’ombrello ci ricordano Venezia e le cerimonie dogali.

Per concludere, immergiamoci nell’atmosfera fiabesca del Sogno di sant’Orsola. Vittore Carpaccio viene spesso ricordato come un abile narratore della quotidianità: ecco, quindi, un interno tipicamente veneziano. Ma, mentre Orsola sogna l’annuncio del suo martirio, si trova a Roma: come si deve procedere per farlo capire? Niente di più semplice. Con minuziosità da studio archeologico, Carpaccio colloca due statue pagane (che rappresentano Ercole e Venere) sugli stipiti delle porte. La scena è ricca di dettagli: la metà del letto di fianco ad Orsola indica la verginità (una condizione destinata a rimanere invariata). Le piante appoggiate sulla finestra hanno un duplice significato simbolico. Secondo una chiave di lettura, il garofano (sinistra) indica l’amore profano e il mirto (destra) quello divino: sono disposti in modo da seguire il passaggio dell’angelo verso Orsola. Un’altra interpretazione, meno suggestiva, identifica nel mirto il simbolo dell’amore e nel garofano quello del matrimonio. Dell’opera, una delle più ammirate dell’intera produzione del Carpaccio, esiste un disegno preparatorio conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze.

John Ruskin ha formulato un’interpretazione suggestiva di questa scena, che viene ricordata da Perocco (1960): (si tratta del) momento felice in cui la mattinale innocenza del Quattrocento più rifulge, prima di essere travolta dalla sapiente arte del Cinquecento”. Infatti, sul cuscino della santa, è presente la scritta “INFANTIA”.