Il big bang di Dante

Ci sono due inizi nella Commedia: il primo lo conosciamo tutti (Nel mezzo del cammin…), l’altro è il racconto dell’origine dell’universo, e siamo al dittico dei canti XXVIII e XXIX del Paradiso

di Francesco Carbone

 

Immaginiamo di entrare in una chiesa antica e prestigiosa; come ormai può accadere solo nei sogni, la chiesa sarà deserta e nel silenzio sentiremo i nostri passi. Lì siamo pellegrini: sospesi e incerti, via via ci accorgiamo di muoverci tra simboli – pietra, oro, tempera, legno – che s’irradiano iconici da ogni lato. Più saremo soli, più i simboli si daranno enigmatici e pietosi alla nostra esitante interrogazione. C’è chi direbbe che stiamo finalmente pregando.

Ma, se di colpo in quella stessa chiesa fossimo stretti in un fiume di persone, magari al seguito di una guida che ripete per la millesima volta parole dimenticate all’istante, allora – come i ladri di Dante in serpenti – siamo trasformati in turisti. Adesso i simboli si ritirano fino a negarsi; al loro posto restano gusci muti e indifferenti. Tutta la rete di corrispondenze che abita la chiesa svanisce, lo spazio viene confiscato da “qualcosa” di semplice, tautologico e urlante. Solo questa semplicità – una coda rinsecchita che la lucertola ha lasciato al predatore – sarà offerta ai turisti: il che, del resto, è proprio ciò che i turisti pretendono. A nulla si concederà di essere sacro: soprattutto a nulla di sacro.

La Commedia di Dante è come questa chiesa, troppo antica e troppo prestigiosa per lasciarla a sé stessa e non sfruttarla: la Commedia è come Chartres, San Marco, Monreale.

A differenza di una cattedrale che costruita nei secoli può essere percorsa in tre minuti, la Commedia richiede la lettura delle sue parole. Di questo ordinato labirinto, il 99% degli occidentali resterebbe volentieri al di qua della copertina se non ci fossero gli anniversari, che nel caso di Dante si contano a secoli. Ma esistono rituali omeopatici: quando giunge il centenario, appena un po’ oltre a Nel mezzo del cammin di nostra vita, si predispongono le celebrazioni: ministri, presidenti, presentatori tv, divulgatori, professori, inscenano la nostra corale confidenza col poeta aristocratico e sdegnoso. Qui finalmente si capisce a cosa serva andare a scuola: a conservare una specie di rilassata nostalgia per qualcosa che, così alla lontana, basta a farci sentire civili.

Questo Dante per turisti indubbiamente ha un suo senso: soprattutto, persuade lo Stato a finanziare centri di ricerca, università, riviste e pubblicazioni che racconteranno scoperte che potrebbero essere anche sensazionali: la Commedia è grande come la Via Lattea, e come l’universo vive un continuo processo d’espansione e rigenerazione. Chi diventa lettore della Commedia, si ritrova subito nello slancio di un Big Bang per il quale non si danno abbastanza telescopi. E questo è il bello.

Allora, una volta sfollata la chiesa dai turisti e dalle loro guide cataloganti, sarà bene avere accanto un Virgilio che ci accompagni nei lenti percorsi silenziosi, che ci regali i pensieri per non ritrovarci ciechi e spersi nella selva dei significati che ci sfuggono. Come ha scritto Joyce di Shakespeare, anche Dante è infatti un «felice terreno di caccia per menti che hanno perso il loro equilibrio» (J. Joyce, Ulisse «Scilla e Cariddi»).

 

Per lo studio di Dante un centro essenziale è la Salerno Editrice creata da Enrico Malato, e non solo per la grandiosa Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante, che sta per essere completata. La sua collana «La navicella dell’ingegno» presenta da un decennio saggi e Lecturae Dantis che aiutano il lettore letterato, come lo chiamò Svevo pensando a chi si avventura nell’Ulisse di Joyce, ad abitare meglio l’enigmatico labirinto che chiamiamo Dante.

Tra i più recenti, c’è Immagine, figura, astrazione di Mira Mocan. Qui, ci avverte l’autrice, si ripensa «la centralità dell’elemento visuale» nella Commedia. Già il giovane Leopardi aveva scritto nello Zibaldone che la Commedia è il poema in cui tutto si vede. Col libro della Mocan, più profondamente, ciò che deve saper vedere è anche e soprattutto «lo sguardo della mente», concetto che viene da una prestigiosa tradizione cristiana che Mocan ripercorre mirabilmente.

Per esercitare lo sguardo della mente, saltiamo al saggio L’universo in forma di fiore (Lettura di Par. XXIX), il più entusiasmante e ambizioso. Il canto XXIX del Paradiso è essenziale.

Ci sono due inizi nella Commedia: il primo lo conosciamo tutti ed è Nel mezzo del cammin; l’altro è il racconto dell’origine dell’universo. Per questa rivelazione bisogna risalire lungo quasi tutta la Commedia e arrivare all’ultimo momento in cui Beatrice istruisce Dante: siamo al dittico dei canti XXVIII e XXIX del Paradiso.

Nel XXVIII canto, Dio è il Punto inesteso e infinitamente luminoso dal quale tutto viene: è circondato dai nove cori angelici e allo stesso tempo circonda i nove cieli che girano attorno alla Terra. Il XXIX è il canto della nascita del Tempo, che Dio – onnisciente, eterno e istantaneo, inesteso e infinito – crea restandone al di qua.

Qui il viaggio di Dante arriva alla massima vicinanza – persino per i santi e per gli angeli – al «Punto» (Par. XXVIII, 16) di Dio. Per il fisico Carlo Rovelli, il canto XXVIII del Paradiso è quanto di più vicino a una rappresentazione della teoria della relatività generale di Einstein sia stato mai concepito (C. Rovelli, La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina, 2014): settecento anni prima! Quest’idea non è di Rovelli: circolava in ambito scientifico già dalla fine degli anni ’70, ma è comprensibile che sia più facile per un fisico leggere Dante che per un filologo approfondire le equazioni differenziali. Osip Mandel’štam, il grande poeta russo che leggeva e sapeva a memoria chissà quanti canti della Commedia, pensava già negli anni ’30 che per Dante occorre un occhio educato alla fisica dei quanti (Conversazione su Dante, Adelphi 2021). Un po’ alla volta ci arriveremo?

Certo è che Dante conosceva straordinariamente i cieli e le stelle e definiva la Geometria, che serve a studiarle, la scienza «bianchissima, in quanto è sanza macula d’errore e certissima per sé» (Convivio, II XIII).

Torniamo al «Punto» da cui tutto s’espande dando origine al Tempo e al Cosmo: compiuta con gli ultimi quattro canti la rivelazione cui era destinato, Dante viene restituito all’esilio sulla terra, e dovrà scrivere. Tutto il viaggio è stato predisposto perché lui profeticamente scriva: la domanda che Dante angosciato fa a Virgilio all’inizio («Ma io perché venirvi?», Inf. II, 31) ha nel paradiso la sua risposta. Allora la sua scrittura – «poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, 2) – rivelerà non solo la sorte dei morti ma l’Inizio del cosmo e il destino apocalittico del Tutto: rivelazioni estreme per le quali nella selva oscura non saremmo stati pronti.

Gianfranco Contini, uno dei lettori indispensabili di Dante, ha riconosciuto per primo nella circolarità della Commedia lo stesso percorso che troviamo in Proust: arrivare al tempo ritrovato per poter poi scrivere e redimere il tempo perduto (Un’idea di Dante, Einaudi 2001). Un grande poeta del Novecento, che sarebbe stato diverso se non avesse conosciuto Dante, ha scritto: «In my end is my beginning», la mia fine è il mio inizio, e il contrario (Th. Stearn Eliot, Four Quartets, 1943).

 

Anche il XXIX, scrive Mocan, è un «canto assoluto» e di «difficilissima interpretazione», un undicesimo grado direbbero gli alpinisti, rispetto al quale tutte le parafrasi e tutte le interpretazioni sono «tentativi».

Seguendo l’autrice, tentiamo un riassunto: creando il Tempo, Dio creò gli angeli e l’universo: agli angeli è dato subito il compito di governare le sfere celesti. Solo per un tempo brevissimo – non si sarebbe arrivati «numerando a venti» – gli angeli sono esistiti nel Tempo. Questa manciata di secondi è stata data agli angeli affinché scegliessero, e bastò perché si manifestasse il «maladetto superbir» di Lucifero e della schiera degli angeli ribelli, subito precipitati nel ventre della Terra e nel Tempo. Agli altri angeli, ai «modesti», Dio infuse la «grazia». La grazia è luce che unisce gli angeli a Dio e li pone definitivamente fuori del Tempo: gli angeli quindi non hanno bisogno di memoria, perché fissi con lo sguardo in Dio che dà loro, scrive Mocan, «una conoscenza simultanea di tutto».

Tutto questo, e molto altro, Dante ha visto: ha visto ciò che i dottori della Chiesa, i santi teologi e i mistici hanno solo immaginato.

Scrive sempre Mocan: mai come in questo canto la sempre problematica Beatrice (una donna reale? un’allegoria? un tentativo complicato e discontinuo di tenere le due cose assieme?) agisce come annullatrice dei falsi «insegnamenti terreni», delle auctoritates che hanno congetturato sugli angeli, sulla nascita del tempo e quindi sul mistero del male.

Nessun canto della Commedia è presenta tanti richiami dottrinari come questo: Agostino, Girolamo, Alberto Magno, Tommaso, Bonaventura, Dionigi Areopagita, Duns Scoto, ecc.! – Dante affida a Beatrice, qui davvero non più che una sua «controfigura» (Corrado Calenda, Una lettura di Paradiso XXIX in «Tenzone»: saggio bellissimo, disponibile on line), una destruens lezione universitaria che l’amata guida svolge senza risparmiarci – commenta Mocan – una «pesante sicumera magistrale».

Ora, non si può non notare, in particolare in luoghi essenziali come questo, quanto ha scritto Manlio Pastore Stocchi, in un altro volume della collana “La navicella dell’ingegno”, Dante giudice pentito (Salerno, 2021): c’è una «tensione, che percorre irrisolta la terza cantica, tra orgoglio e doverosa modestia», perché Dante ci chiede di credere, nella finzione (?) della Commedia, che il suo racconto è vero, che il suo giudizio sui morti è solo il racconto del giudizio di Dio, e – in questo caso – che la visione diretta di Dio gli dà il dovere di dire il vero e di confutare, dove hanno errato, i santi.

Il rasoio di Beatrice conferma la Sacra Scrittura e arricchisce la visione di Dante con lo «sguardo intellettuale» della verità invisibile. Azzardiamo una parafrasi: in versi assoluti e difficili (Par. XXIX 13-18), Dante scrive che Dio, «l’etterno amore», fiorì negli angeli, i «nuovi amori»; questo non per aggiungere al suo Bene già infinito altro bene, il che sarebbe assurdo; ma perché la sua luce, riflettendosi in loro, dicesse «in voi Io esisto»: ciò accadde nel modo che a Lui piacque, nella sua eternità al di fuori del tempo, «fuor d’ogni altro comprender»:

 

Non per aver a sé di bene acquisto,

ch’esser non può, ma perché suo splendore

potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,

 

in sua etternità di tempo fore,

fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,

s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.

 

Scrive Mira Mocan che molti critici hanno riconosciuto in queste terzine «un’ardita riscrittura di due luoghi essenziali della Bibbia»: Sia la luce della Genesi e In principio era il Logos con cui inizia il vangelo di Giovanni. Queste parole, interrogate da Dante, diventano a loro volta parole-amori che aprono in se stesse «nuovi amori». Perché i concetti, i pensieri spogliati dalla poesia, non sono ancora Dante. Dante si rivela nella sua capacità di fare di tanta scienza canto: è nella non parafrasabile «esecuzione verbale, da verificare con meraviglia e sgomento ad ogni apertura di pagina» (G. Contini, op. cit.).

 

Mira Mocan

Immagine, figura, astrazione

Le geometrie del testo

nella «Commedia» di Dante

Salerno, Roma 2022

  1. 260, euro 28,00

 

Manlio Pastore Stocchi

Dante giudice pentito

e altri studi danteschi

Salerno, Roma 2021

  1. 164, euro 20,00