IL CINEMA CHE VIENE DA EST

| | |

Una nota sul 27° Film Festival di Trieste

di Francesco Leoncini

 

Si potrebbe definire in larga parte un appuntamento sulle macerie del post comunismo l’annuale Rassegna del cinema che si svolge a Trieste in gennaio. Le pellicole sono in genere dominate da un senso di spaesamento, si avverte la sensazione che un mondo di certezze sia scomparso e che al suo posto sia subentrata, devastante, la jungla del capitalismo. Un capitalismo particolarmente disumano, quello introdotto dalla ideologia del neoliberismo. Lì si percepisce visivamente lo sconvolgimento economico, ma soprattutto morale e culturale che ha subito quell’area, alla cui appartenenza non può sfuggire la Grecia. È storicamente una comunità di destino quella che unisce tutti i territori che vanno dal Baltico all’Egeo e che stanno tra Germania e Russia e questo appare tanto più evidente negli anni recenti. Su questa fascia longitudinale che potremmo senz’altro definire “Europa centrale” si concentra gran parte della produzione cinematografica che in quest’occasione viene presentata. L’affluenza del pubblico è rilevante ma sarebbe opportuno che alcuni di questi lavori potessero varcare i limiti spazio temporali della manifestazione, fossero distribuiti in altre città e in circuiti dove si dibattono i problemi delle attuali società, perché i temi e le condizioni disperanti che essi rappresentano sono ormai, si potrebbe dire, “patrimonio” di tutti i Paesi, essendo “unico” il pensiero dominante e comuni le conseguenze che ne derivano. Mi riferisco in particolare ai due lungometraggi: Babai del regista albanese di Pristina Visar Morina e a quello della ungherese Lili Horváth A szerdai gyerek (Il figlio del mercoledì).

Ciò che sta dietro la fuga di migliaia, di milioni di persone dai loro luoghi natii, specialmente ciò che sta dietro il viaggio di un minore, alla ricerca in questo caso, del padre che l’ha abbandonato, è ben documentato nel primo caso e potrebbe fare assai riflettere tutti coloro che si oppongono, a volte in maniera violenta, assieme ai loro rappresentanti politici, all’inarrestabile movimento migratorio che sta interessando l’Europa. Qui non si tratta di ricordare lacrimosi racconti deamicisiani tipo Dagli Appennini alle Ande, ma di prendere coscienza di vicende umane le più impensabili e contrastanti che stanno dietro la partenza, accompagnano il tentativo di raggiungere la meta e possono lasciare tracce indelebili nei comportamenti successivi dell’età matura. Ognuna di queste “persone”, perché tali devono essere chiamate, ha alle spalle storie estremamente dure ed esperienze di crudeltà. Ottima l’interpretazione del ragazzo protagonista, che parte dall’Albania per cercare il padre in Germania e significative del clima che circonda i richiedenti asilo, le vicissitudini da lui poi vissute con il genitore ritrovato.

Mi veniva in mente a questo proposito la foto di copertina di un noto libro del famoso storico inglese Tony Judt, di origini ebraiche centro europee, vale a dire Novecento, nell’edizione “Economica Laterza” del 2014. Ebbene lì si vedono seduti alla bell’e meglio tre uomini assai pensosi e preoccupati sullo sfondo di un viavai di persone. Sono gli sfollati ungheresi nella località austriaca di Andau dopo la fallita rivoluzione del ’56. Quanti sono stati i rifugiati del cosiddetto “Est” accolti in Occidente? Senza tante distinzioni se scappassero per le loro idee o per la loro fame! Ora quei Paesi, che erano dietro la “cortina di ferro”, moltiplicano le barriere contro i migranti.

Il problema degli adolescenti che mettono alla luce un bambino, ma non hanno né l’assistenza dell’ambiente sociale né l’educazione né delle possibilità lavorative per poter condurre una vita di coppia e allevare la creatura, è il tema della seconda fiction. Ambientata alla periferia di Budapest la vicenda è lo specchio di una gioventù abbandonata a se stessa, a sentimenti ora di tenerezza materna ora di violenza maschilista in un contesto degradato da un sistema economico che guarda soprattutto al profitto e allo sfruttamento piuttosto che ai bisogni.

Maja, la giovane protagonista, esprime con particolare effetto la sua tensione d’amore verso il figlio Krisz di quattro anni, che vorrebbe portare fuori dall’orfanatrofio, ma non trova corrispondenza nel compagno, il quale vive con altri sbandati in un vecchio vagone ferroviario. Il sorriso e alcune parole del bambino, fino a quel momento rimasto muto, mentre aiuta la madre che è riuscita dopo varie traversie a trovare un lavoro seppur precario, danno un tocco di speranza alle sequenze finali.

Grozny blues di Nicola Bellucci ci ricorda l’irrisolta questione della Cecenia e le conseguenze delle due campagne belliche, nel ’94 e nel ’99, condotte dal potere moscovita nei confronti della regione con il successivo duro regime istaurato da Putin tramite il suo uomo di fiducia, il governatore Kadyrov. Il documentario ruota attorno ai racconti di quattro donne che si sono battute per anni per i diritti umani e che ora vivono in una condizione di isolamento all’interno di una società divisa e segnata da una dura oppressione. Emerge qualche tentativo distensivo da parte di alcuni giovani che hanno solo vaghi ricordi degli orrori passati e cercano di creare un locale di svago, per l’appunto un Blues club. Ma l’immagine finale che coincide con quella iniziale e rappresenta il grattacielo più alto della città che va a fuoco, pare per un corto circuito, ci riporta alla cupa realtà e al passato di una città che nel ’99 venne rasa al suolo.

Vorremmo a questo punto ricordare gli intensi reportage sulla crudezza della guerra in Cecenia scritti a suo tempo sul Manifesto da Astrit Dakli, scomparso in questi giorni e uno dei quali è stato riproposto sul quotidiano il 2 febbraio scorso.

La memoria del passato recente ritorna nella tessitura dell’altro documentario, Battles della regista belga Isabelle Tollenaere, laddove l’armamentario bellico di Albania, Russia, Paesi baltici costituisce ancora oggetto di manifestazioni pubbliche e la popolazione convive con le tracce di una politica orientata allo scontro militare.

Ma più in generale il pericolo sembra essere quello che l’Europa possa tornare indietro, ai secoli bui, a quel tardo feudalesimo che ci viene presentato nelle sequenze di Aferim! (Ben fatto!) del romeno Radu Jude, quando i bambini venivano venduti a peso e gli uomini commerciati come schiavi. È una lunga galoppata in bianco e nero, attraverso selvaggi paesaggi ottocenteschi dell’Europa centro meridionale, compiuta dallo sgherro di un nobiluomo e da suo figlio alla ricerca di uno zingaro schiavo che era sfuggito al suo padrone, con la moglie del quale sembra avesse avuto una tresca. E vi si incontra tutta quella umanità di etnie e di religioni diverse, che in parte popola ancora oggi la regione, in una cornice di violenza talvolta gratuita.

Viene definito un “western balcanico” ma nella nostra società e nei rapporti internazionali appaiono sempre più evidenti quelle forme di neo tribalismo che sembrava dovessero scomparire per sempre.