Quando un festival “gira” bene

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di Alan Viezzoli

 

Il successo di un festival cinematografico dipende da tanti fattori ma quello più importante è composto sicuramente dai film – ed è anche quello su cui gli organizzatori hanno meno il controllo. Se i film belli sono pronti in tempo e i registi hanno piacere di portarli al festival, bene; se l’annata è piena di film mediocri o non troppo riusciti, si presenta quello che c’è.

La 76ª edizione del festival di Cannes, che si è svolta dal 16 al 27 maggio 2023, è forse una delle migliori degli ultimi anni in quanto a qualità dei film proposti, anche se la giuria, presieduta dal regista svedese Ruben Östlund, non sempre è riuscita a coglierne il valore. Tralasciando i tre italiani, a cui è dedicato l’approfondimento che segue, il film che forse più di tutti avrebbe meritato la Palma era Fallen Leaves del finlandese Aki Kaurismäki, che si è dovuto “accontentare” del “Premio della giuria”, il minor riconoscimento del festival. Kaurismäki, con la dolcezza e la sensibilità che gli sono propri, racconta la vita di due “ultimi”, soli e senza affetti in un mondo che sta crollando a pezzi (la radio trasmette solo notizie della guerra russo-ucraina) ma che trovano del conforto uno nell’altro.

Stupendo anche il lavoro del vietnamita, benché naturalizzato francese, Trần Anh Hùng che con il suo La Passion de Dodin Bouffant ha vinto il premio per la miglior regia. Il film mostra per quasi tutti i suoi 134 minuti di durata due persone che cucinano (gli attori Benoît Magimel e Juliette Binoche) nella Francia del 1885, senza mai sfociare nel sentimentale o nell’erotico. L’abilità di Trần Anh Hùng è quella di rendere arte cinematografica quei movimenti tra i fornelli e di ammaliare lo spettatore fino all’inquadratura finale.

I due film premiati per le interpretazioni attoriali avrebbero meritato un riconoscimento maggiore, ma in entrambi i casi la giuria ha preferito sottolineare l’importanza del cast. Si tratta di Perfect Days di Wim Wenders e di About Dry Grasses di Nuri Bilge Ceylan. Nel primo il regista tedesco, grande appassionato di cinema nipponico, si è recato in Giappone per cercare di creare un film che possa ricordare quelle atmosfere fatte di persone umili, di storie piccole e di vita quotidiana. Il risultato è altalenante ma l’interpretazione dell’attore maschile è sicuramente degna di nota. Nel secondo, il regista turco crea un gran film, non solo per la durata. Sono 197 minuti, buona parte dialogati, in cui un’accusa di molestia da parte di due studenti farà sì che l’insegnante di un piccolo villaggio sulle montagne, in attesa di trasferimento, ripensi alla propria carriera.

Con Monster il regista giapponese Hirokazu Kore-eda prosegue la sua serie di film dedicati alla famiglia. Anche qui, come nel film del turco Ceylan, si parla di scuola e di molestie da parte di un insegnante nei confronti di un suo allievo, anche se le cose non sono proprio come sembrano. Forse, tra i film più recenti di Hirokazu Kore-eda, questo Monster non è il più solido dal punto di vista della narrazione a causa di una divisione troppo netta tra la prima e la seconda metà. Nonostante questo, la giuria ha deciso di premiarlo per la miglior sceneggiatura.

Troppo generosi sono stati i due maggiori premi: il “Gran premio della giuria” a The Zone of Interest di Jonathan Glazer – un racconto poco originale dell’Olocausto secondo l’abusata formula della “rimozione dell’orrore” – e la Palma d’oro ad Anatomie d’une chute di Justine Triet – un film processuale ben condotto ma privo di una vera sostanza cinematografica che possa giustificare l’assegnazione di un riconoscimento così prestigioso.

Piuttosto spiace per l’assenza nel palmarès di Asteroid City di Wes Anderson – in cui il regista statunitense lavora sul significato del suo cinema patinato e simmetrico, per scardinarne il valore e renderlo più “sporco” – e di The Old Oaks di Ken Loach – splendido film di argomento contemporaneo condotto con estrema maestria dal regista britannico.

 

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Il poster ufficiale

omaggio a Catherine Deneuve