Virgilio Giotti poeta e triestino

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Il Centro Studi “S. Slataper”pubblica la raccolta degli atti di una giornata di studi sul poeta

di Marina Silvestri

 

Negli auspici degli organizzatori, la giornata di studi su Virgilio Giotti che si è svolta il 1° dicembre 2017 al Circolo della Stampa di Trieste, nel sessantesimo anniversario della sua scomparsa (Giotti è morto il 21 settembre 1957) aveva lo scopo di riaprire l’interesse accademico e più in generale del mondo della cultura, su un poeta che l’assenza di nuove edizioni penalizza. Il convegno ha trattato aspetti personali e della vita familiare, amicizie intercorse con autori e artisti, ha ripercorso la genesi della poetica e la storia di una fortuna critica che risente delle stagioni letterarie in cui è stata elaborata, attualizzandola. Gli atti dell’incontro, ora a disposizione, presenti nel volume pubblicato dal Centro di Studi Scipio Slataper ed edito dalla Hammerle Editori, ben ragguaglia sulla mole di nuovi materiali e le tante sfaccettature da portare all’attenzione del pubblico.

I promotori hanno scelto un titolo che richiami alla tradizione degli studi su Giotti: Virgilio Giotti poeta e triestino. Nell’introduzione il curatore Lorenzo Tommasini spiega che «Virgilio Giotti poeta e triestino ricalca, variandoli appena, i concetti chiave di Pietro Pancrazi. Il primo, quello di poeta che Pancrazi usava sostanzialmente in senso crociano; il secondo quello di triestino, che era la categoria su cui aveva insistito anche in altri scritti definendola come quel costante «assillo morale» che guidava la ricerca letteraria ed esistenziale dei più importanti autori giuliani».

Tommasini, presente anche fra i relatori della giornata, ha incentrato la sua attenzione sui testi in prosa, la maggior parte dei quali era stata pubblicata nel 1977 da Roberto Damiani con il titolo Racconti, e ne ha fornito una lettura comparata che rivela l’osmosi con la poesia, dimostrando le «forzature interpretative» a cui è stato sottoposto in particolare un brano degli Appunti inutili, (il diario scritto tra il 1946 e il 1955, permeato dal dolore per la perdita dei figli in guerra), in cui Giotti distingue la «lingua dalla «poesia» da quella della «scrittura». La prima appare ai suoi occhi legittima, perché «la poesia non vuole esprimere la verità, ma una costruzione ideale», mentre la seconda è condannata ad essere sempre «inesatta, sempre non vera, e qua e là, pur senza volerlo, bugiarda». Erroneamente, rileva Tommasini è stato attribuito a «scrittura» il significato di «prosa», mentre alcun distinguo è mai stato fatto da Giotti; anzi ad una attenta contestualizzazione, secondo lo studioso, i Racconti posso considerarsi organici alla produzione poetica. A sostegno di tale argomentazione Tommasini ha proposto una disamina stilistica dei testi, in particolare della Fiaba rinnarrata richiamandosi alle considerazioni di Bruno Maier che osservò nelle poesie di Giotti un processo che «dalla realtà arriva al simbolo» e ravvisandovi la stessa volontà simbolizzatrice.

Con un analogo intento di superare le interpretazioni che hanno tracciato dei distinguo nell’opera del poeta, Fulvio Senardi ha analizzato la scelta di Giotti di scrivere tra gli anni Venti e Trenta, due raccolte in lingua italiana, Liriche e Idilli. Senardi si è posto la domanda «Perché la poesia in lingua italiana nella penna di chi si stava affermando come il maggior poeta della città di San Giusto (e fra i migliori d’Italia)?» ed ha suggerito alcune ipotesi: l’amicizia con Saba; la generale svalutazione della «musa vernacola»; il mettersi alla prova da uomo di frontiera che cerca un’identità linguistica o puro sperimentalismo. Senardi si è richiamato inoltre a Diego Valeri che aveva definito le poesia in italiano una «digressione» e non una «conversione»; ad Eugenio Montale che nelle liriche di Giotti tanto in lingua italiana che dialettale ha riscontrato una statura lontana dai facili toni elegiaci di chi usa la lingua madre per parlare del luogo in cui è nato; a Franco Brevini che ha sottolineato come al «movimento di riduzione» della realtà dentro un microcosmo che sostituisce il mondo della Grande Storia, corrisponda una poesia che parla della quotidianità familiare e allo stesso tempo classicizza la lingua di ogni giorno. Secondo Senardi basta la semplice lettura ad alta voce di due liriche, una in italiano (Mia figlia), l’altra in dialetto (Putela), per capire come «la via maestra di Giotti non poteva che svolgersi e coronarsi nel dialetto».

La vita del poeta, la sua formazione e l’appartenenza alla realtà europea della città di Trieste è stata ricostruita da Anna Modena, profonda conoscitrice di Giotti, che nell’esposizione dei temi fa proprio il giudizio di Giuseppe Raimondi che parlò di Giotti come di «figlio e prodotto di una periferia nazionale, di un angolo di terra italiana antica, che è come un ponte» e fa notare come Firenze, la città dove si formò non compaia mai nelle liriche se non con un termine qua, mentre entrano nella memoria il rione di San Giovanni, il Farneto, Montebello e la Sacchetta. Modena analizza il medium linguistico, il dialetto, definendolo una lingua «piegata a fini lirici, un codice privo di spessore (e di punte espressive), molto vicino all’italiano. Giotti, scrive, «può muoversi liberamente, tanto più nella distanza fisica da Trieste (che diventa anche luogo mentale)»; l’italianista si sofferma quindi sui rapporti di Giotti con Saba, Bazlen e Stuparich che molto dicono sul suo interloquire con il mondo culturale della città e i suoi protagonisti. Cita la «dedica-ritratto» di Giotti a Saba per la prima edizione dei Versi pici e legeri pubblicati da Mayländer nel 1913 : «Dedico queste carte de botega in segno di profonda amicizia e fede a Saba, il nostro poeta italiano di Trieste; sono nudi versi, simili alle bolle di sapone dei bimbi nel dì di festa, raccolti da un pitoruzzo de cantina». Parole, osserva di «un io non integrato ma esule, che conduce una vita solitaria, raminga e malinconica, in continui viaggi, che sembra avere come punto fermo un unico luogo, quel davanti al mio porto che forse è indizio di un (clandestino?) ritorno in città, o forse meglio di un’abitudine mentale a quello che è già e sarà per Giotti un vero luogo dell’anima»; inoltre ricorda l’attestato di ammirazione che gli tributò Bobi Bazlen che lo presentò a Montale e scrivendo ad un amico annotò: «Le poesie di Giotti mi hanno fatto molto piacere […] perché han tirata fuori tanta Trieste sepolta dentro di me, e m’hanno fatto quasi naufragare in un mare di ricordi che sarebbe, forse, andato perduto per sempre»

Mentre Roberto Benedetti fa riferimento ad alcune lettere di Linuncia Saba a Maria Lupieri che hanno portato alla luce la comune ammirazione per la poesia di Emilly Dickinson (di contro alla nota diffidenza di Saba per la scrittura femminile, esemplificata dalla definizione che dà di Saffo come di «una rondine che non fa primavera») e i legami che intercorrevano fra le famiglie ricostruiti attraverso la corrispondenza che intercorre fra Maria, Tanda e Linuccia. Ha posto inoltre l’accento sulla lettera di apprezzamento che Saba scrisse nei confronti di Giotti ad aprile del 1956 considerandola un segno di riconciliazione dopo un’amicizia bruscamente interrotta per ragioni mai chiarite, nella quale Saba riconosce a Giotti «la capacità di esprimere sentimenti complessi e raffinati nel difficile dialetto triestino». Gianni Cimador ha incentrato la sua attenzione sulla figura di Virgilio Giotti così come emerge dai diari di Biagio Marin per il quale Giotti è un «costante riferimento dal punto di vista poetico e umano, un modello rispetto al quale lo scrittore gradese interroga se stesso» nel corso dell’ intera vita. «Giotti – scrisse – è poeta senza possibilità di dubbio e possiede quella capacità di transustanziazione, alla quale si giunge non per sforzo, ma per grazia». Cimador ha fatto osservare come Marin percepisca Giotti come un fratello maggiore «che sa la legge della vita e dell’arte. Ma che non ti fa mai sentire la sua maggiorità» e come ne abbia colto la diversità rispetto ai vociani considerando tale diversità un «valore aggiunto».

Il librario antiquario Simone Volpato ha esaminato il rapporto tra Giotti e Stuparich sulla base di nuovi documenti trovati nella biblioteca del Centro Studi Stuparich voluto da Anita Pittoni e collegato alle Edizioni dello Zibaldone. Nell’intervento intitolato la vena del sasso, espressione usata da Stuparich per definire la poetica di Giotti, ha commentato le molte dediche presenti nei testi regalati, tra le quali quella al poemetto o meglio libro d’artista El velier : «Caro Giani che bello era bighellonare per la Sacchetta con Saba, Bolaffio e gli amici del caffè. Che bello era perdersi fra navi e velieri, fra odori fortissimi e piccole ciacole […] Incapace di essere marinaio e capitano di navi mi sono inventato, in sogni condivisi con i miei cari, capitano di vascelli e di piccoli velieri che solcano i mari dell’anima». Il materiale archivistico su Giotti è stato illustrato da Marco Menato, direttore della Biblioteca Statale Isontina di Gorizia, cominciando da quello conservato nell’Archivio istituito dopo la morte della figlia Natalia Belli (Tanda) dalla nipote Vittorina Quarantotto Vianello, con sede a Trieste in via degli Stella, e ne ha fornito un’ampia completa disamina.

Le esperienze generazionali dei figli di Giotti, Paolo e Franco e quella di Scipio Secondo Slataper, accomunati dallo stesso destino, morti giovanissimi sul fronte russo, sono state le premesse dell’intervento di Luca Zorzenon che, ha toccato i temi dell’antimilitarismo e del pacifismo, spiegando come fossero in Giotti «viscerali» di una misura «antropologica» e «pre-ideologica», come il suo antifascismo, tanto che sottrasse i figli alla scuola pubblica e divenne per loro «maestro e pedagogo». Zorzenon mette a confronto con gli scritti di Paolo e Franco, una lettera che Scipio Secondo scrisse a Giani Stuparich che era stato suo professore a maggio del 1941; Scipio si sentiva figlio di vincitori che sono stati vinti ed esprimeva la solitudine dei «figli-eredi» di un interventismo che si voleva ‘democratico’, uscito sconfitto; si sofferma quindi sul «nesso biografia-opera» nel dialogo con Paolo che in Russia è alla ricerca delle origini materne, e Franco che mantiene il legame con il padre attraverso discorsi sulle donne e sui libri, e sulla dimensione non più consolatoria, ma dissennata della poesia dopo la loro morte; di seguito affronta il tema dell’estraneità alla grande Storia, le motivazioni di questo sguardo, e la scelta di parlare dell’universo quotidiano, della casa, anzi delle case della sua vita. «Il linguaggio poetico per Giotti oltrepassa la realtà storica, la sua verità violenta e mono-tonale, come egli stesso lo definisce, e tende in controspinta ad un oltre ideale. Il tema della casa […]va interpretato anche, nella sua progressiva evoluzione, come aspirazione ad uno riparo dalla minaccia del disordine violento della Storia, tema che diventa dominante nel tempo della guerra e prolunga il suo doloroso riflesso nei testi in versi e in prosa di Giotti dopo la tragedia dei figli»; nella chiusa dopo essersi richiamato ad una delle liriche più famose, El paradiso che condensa il «sogno di atemporalità» in cui passato e presente si saldano e si rimescolano indistinti, e la «circolarità astorica del tempo e dello spazio, in cui si può aspirare alla vera immortalità, pur perennemente contrastata dagli «svenimenti di coscienza» e dalla saltuarietà contingente della vita reale», Luca Zorzenon affronta il tema della felicità in Giotti possibile solo indrio, ovvero in un passato «più immaginato che reale, quotidiana, umile «costruzione ideale» di una casa che è

il linguaggio stesso della poesia».

Molto più di una miscellanea di contributi critici il libro si propone come uno strumento importante per chi voglia avvicinarsi alla figura di Giotti e, per il semplice lettore, un nutrimento spirituale del quale ci sarebbe più spesso la necessità.