Manganelli e il destino di Kafka

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Era uno scrittore di nicchia, con lettori tenaci e felici che gli chiedevano solo di continuare a scrivere

di Francesco Carbone

 

«Il carteggio Stalin-Shakespeare. Deplorevole, ma non incomprensibile, che manchino le risposte di Shakespeare. Uomo estremamente riservato.»

(Giorgio Manganelli, Riunioni clandestine)

 

I pettegolezzi sono brevi come barzellette. Molto più di quelle però sono tenaci, conoscono la formula per non farsi dimenticare, sono amplificabili fino alla saga e alla mitologia, non sono mai veri ma non sono smentibili. Se si riferisce una cosa qualunque come un pettegolezzo, la sua verità svapora all’istante; resta solo l’appiccicoso e complice pissi pissi della diceria. I pettegoli, come non riconoscerlo?, si divertono. Nessuno può scagliare la prima pietra: tutti spettegoliamo.

Nei pettegolezzi non c’è tragedia. Sarà per questo che piacciono tanto. Vanamente Majakovskij, e poi Pavese, chiesero di non fare pettegolezzi sulla loro vita e la loro morte: figurarsi.

Potremmo dire con Hegel che, nel caso dei cosiddetti grandi uomini, il pettegolezzo è la vendetta del cameriere: «Non c’è eroe per il suo cameriere e non perché quello non sia un eroe, ma perché questo è un cameriere» (G. W. F. Hegel Fenomenologia dello spirito, Bompiani 2001).

Quanto agli scrittori, saranno tanto più memorabili quanto più saranno “spettegolizzabili”: Proust beveva 17 caffè al giorno, la prima fidanzata di Kafka aveva i denti d’argento, la moglie di Pirandello era pazza, il gobbo Leopardi mangiava troppi gelati; chissà poi quanto torbido era il rapporto tra Simenon e la figlia, D’Annunzio si dedicava a pratiche di autoerotismo acrobatiche, ecc. Ci siamo tenuti sul leggero. Tutte queste dicerie hanno in comune che si propagano da sé, senza bisogno di frequentare una riga dei libri dei grandi scrittori, meglio: senza bisogno di frequentare i libri di nessuno. A Trieste, masnade di quieti turisti si affollano vicino al portoncino di una casina di Città Vecchia: una guida racconta che lì c’era un bordello frequentato da James Joyce: quel pettegolezzo compensa ampiamente il fatto che neppure si pensa di dedicarsi alla lettura di qualche pagina dell’Ulisse.

Ogni tentativo di sfuggire alla diceria è destinato a fallire: per abolire lo spettegolare dei camerieri, occorrerebbe abolire i camerieri: vasto programma.

Sta succedendo proprio questo a Giorgio Manganelli (1922 – 1990), in vita giudicato scrittore iper-letterario, barocco, manierista, aristocratico, da leggere con un buon vocabolario vicino, e imperdonabilmente privo di biografia. Ovviamente, non andava mai in tv: già di suo sfuggiva con accuratezza la biografia come il diavolo l’acqua santa: «sono nato, questo vi basta?» (La penombra mentale, Editori Riuniti, 2001). La biografia è il territorio di caccia dei camerieri.

Manganelli non era un personaggio: non era D’Annunzio e neppure Pasolini, che lo definì un teppista, e col quale polemizzò sulla legge che garantiva alle donne il diritto all’aborto. Non era neppure impegnato politicamente e, a differenza di Moravia, non firmava manifesti. In verità, non si definiva nemmeno intellettuale, tanto meno uomo di cultura: cultura e letteratura gli apparvero sempre termini che si escludevano a vicenda. Eppure aveva fatto il partigiano e non era stato fucilato per un puro colpo di fortuna all’ultimo momento. Cera chi ci avrebbe speculato per tutta la vita. Su questo Manganelli non scrisse nemmeno una riga.

Esistevano solo i suoi libri e i suoi corsivi, micidiali e divertentissimi, per i più importanti giornali italiani. Era rimasto sempre al riparo di una candidatura al Nobel, evento che lo avrebbe offeso. Era del resto lo scrittore più anti-Nobel che si possa immaginare: non aveva messaggi, non scriveva per rendere buona l’Umanità. Aveva invece scritto nel 1967 un libro che s’intitolava La letteratura come menzogna, e non si dà il Nobel ai bugiardi dichiarati. Forse anti-Nobel come lui è stato solo Nabokov, che gli piaceva moltissimo, il quale diceva degli autori che hanno una morale: se hanno un messaggio, che mandino un telegramma.

Manganelli piaceva però agli scrittori e ai palati fini: Arbasino, Agamben, Calvino, Citati, Fruttero e Lucentini, Anceschi, Corti, Calasso… Era uno scrittore di nicchia, con lettori tenaci e felici che gli chiedevano solo di continuare a scrivere.

Ma Giorgio Manganelli sta diventando ogni anno di più il caso letterario più eclatante tra gli scrittori italiani del secondo Novecento. I saggi pubblicati su di lui dopo la morte sono già decine. Alcuni preziosi. Su questo aveva visto lungo Maria Corti: su La Repubblica nel 1991, aveva scritto: «ci vorranno anni», per farsi un’idea non generica di quella che Agamben ha definito una «fra le massime scritture del Novecento» (G. Agamben, Categorie italiane, Quodlibet 2021).

Intanto, malgrado la sua «riservatissima vita» (sempre Maria Corti), prolifera la pubblicazione postuma anche di scritture intime, che – se ne può essere certi – Manganelli non avrebbe voluto fossero pubblicate mai. Soprattutto gli epistolari con le donne che ha amato: ne sono stati pubblicati quattro, l’ultimo, appena uscito, da Sellerio, raccoglie le lettere scritte a Ebe Flamini (G. Manganelli, Mia anima carnale, Sellerio 2023). Il libretto è curato come meglio non si potrebbe da Salvatore Silvano Nigro, uno dei massimi esperti di Manganelli. Alcune lettere sono bellissime. Viene da dire: non compratelo, non leggetelo.

Semplicemente perché non sono state scritte a noi. E l’autore avrebbe tollerato che venissero rese pubbliche molto meno di quanto l’attuale re d’Inghilterra ha sopportato che si sapesse che ha desiderato di essere il tampax della sua attuale moglie.

Ovvio che il discorso qui si faccia complicato. Prendiamo l’esempio più celebre: non leggiamo forse le lettere intime di Kafka, che aveva lasciato a Max Brod il compito di bruciare tutto? Certo le avrà lette anche Manganelli, che aveva letto tutto (la sua biblioteca, ora al Centro Manoscritti dell’Università di Pavia, è di 18.000 volumi). E proprio Kafka amava leggere le biografie degli scrittori. Le biografie, se non sono testi paludati e ingessati, sono piene di pettegolezzi.

Ora la fama, la gloria, di un autore rendono lecita quella che Kundera ha chiamato le «delazioni» sulla sua vita (I testamenti traditi, Adelphi 1993)?

Sempre in Testamenti traditi, Kundera – proprio a proposito di Kafka – fa un discorso che dovrebbe interessarci: sta morendo il pudore, che Manganelli praticava come una religione senza deroghe, ed «è una vecchia utopia fascista e comunista quella di una vita senza segreti, in cui vita pubblica e vita privata siano tutt’uno».  Ora, domanda retorica, chi è Manganelli per sottrarsi al destino di Kafka?

L’ultima delazione che lo riguarda è il libro della figlia Lietta Manganelli, che ci offre un testo cordiale, affettuoso, ed estremamente pettegolo: Giorgio Manganelli. Aspettando che l’inferno cominci a funzionare (La nave di Teseo, 2022). Non leggete neppure quello. Piuttosto, sempre di Lietta, procuratevi l’Album fotografico di Giorgio Manganelli (Quodlibet, 2010): c’è lo stesso racconto come commento a 109 fotografie, ma più succinto e con molti meno pettegolezzi.

Non leggetelo perché non serve. Non serve se c’interessa la letteratura. C’è un piccolo e capitale saggio di Marcel Proust, Contro Sainte-Beuve (Mimesis, 2013), in cui al “grande critico” Charles Augustin de Sainte-Beuve (1804 – 1869), super-esperto quanto a biografie, si obietta che, con tutta la sua scienza biografica, ebbe il talento di non imbroccarne una: non riconobbe né Balzac, né Stendhal, né Baudelaire. Dunque la biografia svia, illude, inganna. Fa sbagliare tutto.

L’ideal tipo dello scrittore è «un anonimo di nome Omero» (G. Manganelli, Laboriose inezie Garzanti 1986); e quell’altro incognito che è stato Shakespeare: su di lui bellissime biografie di centinaia di pagine ci dicono che del Bardo non sappiamo quasi niente: molto meglio allora leggere il capitolo nell’Ulisse di Joyce su Amleto. È filologicamente inappuntabile, e ci si diverte.

Proprio Manganelli ci dà gli anticorpi per diffidare di diari, epistolari, biografie, ecc.: il Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti, Amore, La penombra mentale, Le interviste impossibili

Per il resto, se proprio ci si tiene, la biografia di Giorgio Manganelli è facile: il professor Manganelli era figlio di una mamma dispotica che avrebbe voluto, come quella di Flaubert, una figlia femmina. Come l’autore di Madame Bovary, rischiò di diventare L’idiota di famiglia (J. P. Sartre, Il Saggiatore 2019). Fu anche bocciato in prima elementare. Dopo un matrimonio infelice, scappò dalla moglie e da Alda Merini a Roma, portando con sé in treno (terza classe) la sua lambretta. La lambretta si chiamava Bakunina. Una volta a Roma, le lunghe lettere della Merini venivano gettate nel cestino senza aprirle (tutte le cose che la Merini ha scritto di Manganelli sono stupidaggini). Aveva difficoltà ad allacciarsi le scarpe, ma aveva trovato un nesso tra questo e la vocazione letteraria. Un giorno Gadda andò a casa sua e gli fece una scenata perché credeva che avesse fatto il verso alla Cognizione del dolore. Un’ora prima, aveva rivisto dopo molti anni la figlia Lietta, e non si riconobbero. Era poliglotta e poligamo. Conosceva lo swahili. Amava i ristoranti e, almeno fino a una certa età, le cravatte. Dalla sua prolifica attività di giornalista è facile dedurre che fosse di sinistra, si potrebbe dire un azionista, ma non lasciava mai, come diceva Proust, «il cartellino del prezzo» sui suoi regali. Sosteneva anzi di non avere opinioni, e di essere «incompetente in tutto» (P. Citati, La ragazza dagli occhi d’oro, Adelphi 2022). Al cimitero Verano a Roma, non risulta tra i morti lì tenuti, perché Ebe Flamini lo fece inumare in una tomba a suo nome: per una monogamia in morte che in vita non avrebbe mai potuto praticare.

Tra le donne che sono state sue compagne, la sola che ha il tono giusto è Viola Papetti (Lettere senza risposta, nottetempo 2015), che sa raccontare con pudore il pudore e la ritrosia di Manganelli, non solo personale ma proprio come scrittore: «per tentare di accostarlo, è opportuno chiedergli il permesso» (V. Papetti, Gli straccali di Manganelli sedizioni 2012). Quindi, si può prendere La palude definitiva (Adelphi 1991), aprire cautamente la copertina come una soglia e chiedere alla prima pagina: è permesso?

 

 

 

Giorgio Manganelli

in un’istantanea