Pàvana, la Macondo di Guccini

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A colloquio con l’autore di Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto

 

Di seguito riportiamo le parti salienti di una conversazione di un gruppo di giornalisti con Guccini, avvenuta il giorno 21 settembre 2019, nell’ambito degli incontri della manifestazione pordenonese.

 

C’è più nostalgia o rimpianto nel suo nuovo libro?

Nostalgia sì, rimpianto no, perché, onestamente, adesso stiamo meglio, viviamo meglio. Pensiamo ai rubinetti che abbiamo in casa: una volta dovevamo andare al pozzo, alla fontana, adesso non solo abbiamo l’acqua in casa, ma persino, agendo sui rubinetti, addirittura l’acqua calda! Sembra un miracolo… e poi un tempo non c’era l’energia elettrica in casa, non c’erano tutte le automobili che adesso ci sono, non c’era la televisione, anche le radio erano pochissime. C’è una civiltà completamente diversa; c’è ancora, ma in realtà sta morendo, la civiltà contadina. Un tempo, oltre il fiume, di là dall’acqua, come diciamo noi, c’erano le famiglie contadine, che vivevano in un’econmia di sopravvivenza, ma che avevano degli animali in casa: galline, conigli, maiali… ora non c’è più niente, è praticamente vietato avere animali e quindi è cambiato il mondo. Perciò nostalgia per questo mondo, ma rimpianto no.

Nella sua produzione c’è da sempre questo sentimento della nostalgia, basti pensare alle sue canzoni più note, la nostalgia dell’eskimo, di un mondo più vicino nel tempo rispetto a quello che descrive in questo libro, dove la nostalgia è trasferita in una prosa molto ricca ed elaborata anche se molto vicina al parlare quotidiano, ovviamente di quello che è il vostro parlare, in forme spesso dialettali, anche se sfiorano l’italiano…

Noi parliamo diversi tipi di italiano, spesso sono lingue diverse. L’italiano che parliamo in pubblico, ad esempio, non è quello che adoperiamo a casa. Parliamo a strati l’italiano: lo strato dialettale (ma non dialetto), in un mondo dove tutti parlavano dialetto, per strada, nei negozi, anche nelle comunicazioni amorose, ma poi, essendo in Toscana, s’era sempre avuta una grande facilità nel passaggio dal dialetto – che è molto simile all’italiano – alla lingua nazionale. Il mio secondo dialetto e il modenese, e se lo parlo, un toscano non capisce assolutamente nulla, sembra ostrogoto. Quello che si parla invece da noi, a Pàvana, è più comprensibile, più aderente all’italiano. Io adopero questa lingua parlata, che segue un andamento reale, come se raccontasi qualcosa ad amici. Il primo romanzo che ho scritto, Croniche epafaniche, riguardava questo ambito linguistico. Nel secondo romanzo [Vacca d’un cane, ndr], dove parlavo di Modena, ho cambiato il linguaggio, per renderlo più aderente alla realtà modenese che intendevo rappresentare. Il terzo è Cittanova blues, ambientato a Bologna e, non conoscendo il dialetto bolognese, ho adoperato un gergo che parlavo lì. Stiamo parlando di parole, ma dietro le parole però c’è un mondo, che c’era e che non c’è più. Un mondo di persone che ho conosciuto, che in molti casi anch’esse non ci sono più: persone nate magari nell’Ottocento. SI tratta di un mondo realmente molto diverso, tanto che mi chiedo come facesse la mia prozia per Natale, quando veniva a prenderci alla stazione, mentre non c’era il telefonino per darci l’appuntamento…

Nel libro che ha appena pubblicato lei descrive con dovizia di particolari un luogo e un momento storico carico di tradizioni e di cultura oggi scomparse; non le sembra un paradosso che in un paese al tramonto, “tra lume e oscurità” come anticipa il titolo, vi sia così tanta vitalità?

Forse la vedo da un mio punto di vista, quello di uno che quest’altr’anno compie ottant’anni: dei due amici cui ho dedicato il libro, uno è morto due mesi fa, l’altro è messo male, e sono miei coetanei. In un paese dove non c’è vitalità, non c’è ricambio. Mi capita di assistere a tre che non possono fare una partita a carte perché manca il quarto, per dire. Questo racconto che ho scritto, mi fa pensare allo stile che hanno certi narratori latinoamericani che parlano di niente, parlano di Macondo, un posto che non esiste, mitizzato. Così qua i personaggi reali diventano fantasie mie, una mitologia che mi sono costruita, che mi consente di farne capitani di ventura, come ho scritto alla fine del libro. Però ho un amico, che tale è rimasto tuttora, al quale tra l’altro ho dedicato Canzone per Piero, che ho conosciuto nel ‘’49, quando lui venne in villeggiatura a Pàvana, quando c’erano ancora due calzolai, un falegname, c’era un cinema, e di fronte al cinema c’era un’osteriola dove distinte signorine intrattenevano in maniera particolare gli eventuali clienti, quindi non ci mancava niente. Con lui, che sìè costruito a sua volta una sorta di mitologia innocente, capita ancora che ci si affanni a dire ti ricordi quella volta, e poi quell’altra…

Pàvana è un po’ fuori dal mondo, ormai…

Misteriosamente non è capoluogo di provincia, non capisco perché!

Diciamo allora che lì lei vive un po’ isolato. Volevo chiedere se la musica è tra quanto la tiene collegato alla realtà di oggi.

La musica molto meno. L’ultimo disco l’ho fatto nel 2011, poi ho detto basta. Però Pàvana non è così fuori dal mondo: è che, certo, non c’è più la gente che c’era una volta, come è un po’ in tutto l’Appennino. Da noi i contadini, appena potevano, andavano a lavorare in fabbrica, che era già un gran colpo di culo avere un posto in fabbrica, rispetto alla vita che facevano coltivando la terra e raccogliendo castagne. Si lavorava dalle otto alle cinque e poi era finita, mentre a coltivare la terra e a badare alle bestie dovevi lavorare da quando c’era luce a quando faceva buio, e poi niente sabato festivo, niente ferie niente di niente. Poi anche in fabbrica è arrivata la crisi. C’è una fabbrica vicino a noi dove un tempo lavoravano in quattromila, dava di che vivere a tutta la zona. Ora sono in trecento: ovvio che i paesi si svuotino, che i negozi chiudano. Anche col turismo, con le terme è andata così. Ora come vuoi che si competa con luoghi come Rimini o Riccione? Non c’è partita…

Ma le capita almeno di riascoltare le sue canzoni?

Per l’amor di Dio. Non solo non ascolto più canzoni, non ascolto più musica in generale. Ammesso che fossi capace di suonare la chitarra, ora non riesco più a farlo. Cerco di dimenticare, non proprio del tutto. perché ritengo di aver fatto anche delle buone cose, ma ora cerco di lasciare da parte. Però le canzoni tornano sempre, come capitava al suonatore Jones di Spoon River. Una volta che la gente sa, e la gente lo sa che le sai suonare, devi suonarle per tutta la vita.