Il robot perturbante 2

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Golem, zombie e Co.

Quando la somiglianza supera un certo livello, l’aspetto e i movimenti del robot lo rendono sinistro e inquietante

di Giuseppe O. Longo

 

 

Il perturbante appartiene alla sfera dello spaventoso,

di ciò che genera angoscia e orrore, e questo termine

non viene sempre usato in un senso nettamente definibile,

tanto che quasi sempre coincide con ciò che è genericamente angoscioso.

Sigmund Freud

 

Per manifestarsi, il perturbante non aspetta certo i robot: già in passato le figure ospitate nei musei delle cere e gli automi, letterari e reali, offrivano esempi di artefatti capaci di suscitare un’impressione, a volte sinistra, di disagio. Ed è un disagio che, più o meno evidente, percorre tutto il filone delle ricerche e delle attuazioni dell’intelligenza artificiale. Queste ricerche e attuazioni si collocano nel solco di una millenaria ambizione dell’uomo: quella di imitare l’atto divino della creazione. Più o meno dichiarata, quest’ambizione risale all’antichità biblica e classica, e la leggenda del Golem ne è forse l’esempio mitologico e letterario più noto. In quest’impresa s’intrecciano la vertigine della creazione e il timore della creatura, che talora minaccia di soverchiare e distruggere l’inesperto demiurgo. Il controllo del Golem passa attraverso la parola: per dargli vita gli si scrive in fronte emet (verità), ma basta cancellare la prima lettera perché emet divenga met (morte) e il Golem cessi di vivere. Anche nel caso del mostro di Frankenstein la creatura trascende il progetto e si ribella, suscitando negli uomini angoscia e terrore. Talvolta gli esseri umani subiscono invece il fascino degli esseri artificiali, come nei racconti di Hoffmann, su cui tornerò.

Passando dal mito e dalla letteratura al versante costruttivo, i tentativi di fabbricare l’uomo artificiale sono altrettanto se non più numerosi, anche se i risultati, per la pesantezza della materia e per le difficoltà di lavorazione, assumono forme più modeste rispetto ai prodotti della fantasia, ma forse più ammirevoli per la loro concretezza: nascono così gli automi. Questi prodotti dell’ingegno umano oggi non si costruiscono più e si trovano solo nei musei e nei teatri della nostalgia. Eppure gli automi continuano a popolare di inquiete proiezioni e torbidi sogni la dimensione immaginaria del nostro tempo e da qui travalicano nelle creazioni artistiche e nelle attuazioni tecniche. Anche se forme e strumenti sono mutati, esiste tuttora un campo di ricerca contrassegnato dalla dubitosa e mutevole linea di separazione tra ciò che l’uomo può attuare e ciò che può solo sognare. In questo senso gli automi incarnano da sempre – anche nelle nuove vesti informatiche, protetiche e robotiche – l’aspirazione dell’uomo a superare i limiti della propria contingenza e colorano di perturbante la storia della tecnica, fino a travasarsi nei loro eredi, i robot umanoidi.

 

I robot umanoidi

 

Come si è accennato nella prima puntata, nel 1970 lo studioso giapponese di robotica Masahiro Mori, allora quarantatreenne, pubblicò un articolo dal titolo Bukimi No Tani (L’avvallamento del perturbante), in cui avanzava un’interessante ipotesi sulla reazione emotiva degli esseri umani di fronte ad artefatti aventi un grado maggiore o minore di somiglianza con l’uomo. Un pezzo di legno non suscita reazioni emotive particolari, ma se lo si scolpisce dandogli una forma antropomorfa, la cosa è diversa, come insegna la favola di Pinocchio. Mori era interessato soprattutto alla nostra reazione di fronte ai robot al crescere del loro grado di similarità con noi. In prima approssimazione, si può ritenere che al crescere della somiglianza cresca anche il senso di familiarità e di simpatia e cresca la nostra inclinazione a concedere al robot un certo grado di parentela con noi, insomma di “umanità”.

Questo è vero, ma fino a un certo punto: secondo Mori, quando la somiglianza supera un certo livello, l’aspetto e i movimenti del robot lo rendono sinistro e inquietante. Si ha la sensazione di avere a che fare non con un robot che somiglia a un uomo, ma con un uomo non del tutto umano. Se ne scorgono le discrepanze rispetto all’essere umano e certi difetti, anche minimi, che prima non si notavano o si accettavano senza problemi: il nostro atteggiamento positivo subisce un brusco calo e si rovescia in una reazione negativa. L’artefatto, che prima era chiaramente tale e al quale per simpatia eravamo disposti a concedere un certo grado di umanità, ci appare ora come una evidente imitazione, non del tutto riuscita, e ciò provoca un sentimento di repulsione, appunto di perturbante, perché ci pone in uno stato di incertezza riguardo alla sua natura.

Se si rappresenta il fenomeno su un piano cartesiano con un grafico che abbia in ascissa la somiglianza delle entità considerate con l’uomo (da 0% a 100%) e in ordinata la sensazione positiva di familiarità o empatia, secondo Mori si ottengono le curve della figura (già riprodotta nell’articolo precedente).

 

 

Il grafico dell’avvallamento del perturbante (uncanny valley) di Masahiro Mori (1970)

 

La linea tratteggiata si riferisce a robot umanoidi dotati di movimento: la nostra simpatia cresce fino al 70% circa di somiglianza per poi subire un brusco abbassamento, corrispondente allo spaesamento provato dall’osservatore umano. Il valore minimo si ha in corrispondenza di uno zombie, la cui somiglianza con gli umani è grandissima ma non completa. (Zombie è un termine di origine haitiana e prima ancora bantu, legato ai riti vudù, che indica un morto vivente. Per certi esperimenti concettuali, i filosofi hanno adottato lo zombie, un essere che ha tutta l’apparenza e il comportamento di un umano, ma è privo di mente, di coscienza e di emozioni. Il Golem della leggenda ebraica si può considerare uno zombie. La cinematografia si è impadronita degli zombie, presentandoceli come creature dementi, animate da una violenza fine a sé stessa e dedite al cannibalismo).

Per tornare al nostro grafico, notiamo che al crescere ulteriore della somiglianza la curva risale, per esempio quando ci si confronta con arti artificiali o con marionette, come nel caso dei burattini giapponesi bunraku (Il Bunraku è un tipo di teatro giapponese, i cui personaggi sono rappresentanti da burattini di grandi dimensioni, manovrati a vista ciascuno da tre uomini. È stato dichiarato patrimonio dell’umanità), e raggiunge il massimo quando gli osservatori si trovano di fronte a esseri umani veri. La cunetta presentata dalla curva fu chiamata da Mori “avvallamento del perturbante” (in inglese uncanny valley). Un andamento analogo, ma meno spiccato, si osserva nel caso di oggetti privi di movimento, come animali impagliati o bambole: in questo caso l’avvallamento del perturbante raggiunge il minimo quando ci si trova davanti a un cadavere, cioè a un corpo umano inanimato.

È interessante notare che nel 1970 non esistevano robot umanoidi, anzi la ricerca sui robot umanoidi non era presa sul serio neppure nell’accademia, che li considerava giocattoli. Quella di Mori fu dunque un’intuizione presaga, che affondava le radici nel fascino orrorifico che sullo studioso avevano esercitato da bambino le figure di cera e, in seguito, anche le mani artificiali elettroniche. Mori stesso ammette che a quel tempo non immaginava che la sua idea sarebbe stata oggetto di interesse crescente: secondo lui l’esistenza dell’avvallamento doveva essere una sorta di monito a non costruire artefatti troppo simili all’uomo nell’aspetto e nei movimenti. Forse perché una somiglianza eccessiva è sentita come una minaccia per la nostra identità? In realtà alcuni robot hanno più o meno superato l’avvallamento (per esempio la replicante giapponese Q2, costruita dalla Kokoro Company, o la gineide a grandezza naturale HRP-4C, costruita dall’Istituto Nazionale Giapponese per la Scienza e la Tecnologia).Fu solo nel 2005, grazie a un convegno sui robot umanoidi organizzato dall’IEEE (Institute of Electrical and Electronics Engineers) a Tsukuba, in Giappone, che l’idea di Mori cominciò a circolare in ambito internazionale. Oggi, studiando le onde cerebrali, i neurologi hanno dimostrato sperimentalmente l’esistenza dell’avvallamento, anche se non è chiarissimo perché esista, cioè perché a un certo punto il soggetto avverta la sensazione di perturbante.

È forse possibile spiegare questo effetto come il risultato di due spinte opposte: da una parte l’osservatore è incline a simpatizzare con l’oggetto che ha di fronte (per esempio un robot umanoide o antropomorfo semovente, androide se di aspetto maschile o gineide se di aspetto femminile) e ad attribuirgli alcune caratteristiche umane che il robot non possiede; dall’altra ha la consapevolezza che si tratta pur sempre di un artefatto e non di un essere umano. Se la somiglianza non è eccessiva, la concessione dell’umanità, accompagnata dalla simpatia e da un certo qual divertito stupore, non presenta problemi. Ma oltre una certa soglia la consapevolezza che si tratta di un artefatto si attenua, mentre il processo di umanizzazione continua a crescere e diventa così intenso che la presenza degli inevitabili difetti diventa insostenibile: non più un robot che somiglia a un umano, ma un umano difettoso: quindi ci si trova in una situazione perturbante, sinistra. In altre parole ci si trova nel dubbio se l’oggetto sia o no umano. Soltanto quando la somiglianza cresce ancora e i difetti scompaiono si ha un’accettazione imperturbata.

 

(2-continua)