Il lupo che azzanna

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Desunt Nonnulla, una nuova raccolta di versi di Sandro Pecchiari

di Laura Ricci

 

La scrittura, anche la più surreale, nasce dalle esperienze della vita, e filtrata e resa unica dalla visione strutturale e dallo stile, si separa da chi scrive per schiudere significati e risonanze nella vita di chi legge, diventa esperienza universale. È ancora più vero per la poesia, dove la parola è essenziale e concentrata, e ancor più quando un corpo poetico nasce da un’esperienza di sofferenza e dolore. È quanto accade nella recente silloge del poeta Sandro Pecchiari, ove l’esperienza dolorosa si configura nella malattia del secolo, il cancro.
Desunt Nonnulla, edita negli eleganti tipi di Arcipelago Itaca, sceglie un titolo quanto mai allusivo, che si stempera di ironica leggerezza nel sottotitolo parentetico piccole omissioni. Come l’autore esplicita in una nota, è suggerito da un epillio di Christopher Marlowe che racconta la storia mitologica di Ero e Leandro, senza arrivare alla tragica morte dei due amanti, ma interrompendosi nel momento della loro unione carnale. Si è a lungo discusso se il Desunt Nonnulla che conclude il poemetto sia stato voluto da Marlowe, perché non interessato al resto della storia, o se sia stato apposto in fase di stampa per l’improvviso assassinio del poeta; in ogni caso, scrive Pecchiari “in fondo entrambe le soluzioni appaiono accettabili e lasciano un senso disturbante di non finito”.

La raccolta si divide in sezioni che segnano la lenta cadenza del tempo e le diverse fasi della malattia – dalla sua scoperta, all’ospedalizzazione, all’espulsione del temuto mostro, al cauto felpato ritorno alla vita quotidiana – ognuna preceduta da un esergo, e si conclude con il componimento bilingue Dopo i giorni – After the days, che in realtà è stato il primo a essere scritto e ricongiunge il tempo finito dell’esperienza con lo schiudersi del non tempo perenne della creazione letteraria: con brivido guardiamo quei riflessi / – bluastri verdastri smossi – / e andiamo morsi di lentezza / che è cibo e stazione per gli altri // [l’avremmo detto mai / che saremmo stati solo pelle].

Prima dei giorni, la prima sezione introdotta da due splendidi esergo  – Ho freddo, ma come se non fossi io (Mario Benedetti); …e ho preso commiato / commiato su commiato (Rilke) – fa i conti con il male “lupo che azzanna”, con le torri orco del centro ospedaliero di Cattinara e con il nuovo ristretto habitat dell’attesa, stabilendo da subito un drammatico conflittuale rapporto padre/figlio con l’occulta minaccia della vita tu quoque fili mi / attento accanto attendi appari – che oltretutto si rovescia, con una fulminea intuizione poetica, nell’analogia mitologica della “maternità tremenda / del cavallo di Troia eviscerato”. È uno spaesamento angosciante, insidioso, ma nella consapevolezza che se sarà buono il lupo, se a un qualsiasi dio si starà in bocca, pur se la vita da ora si misura in meno / parole da scambiare // saranno bottino / dopo.
Poi, attraverso la minuziosa scansione dei giorni Giorno zero, Giorno uno, Giorno due, Giorno tre – questo diario acuminato e scarno di ospedalizzazione si muove tra la percezione precisa del corpo, che nella malattia diventa protagonista, e il suo opposto sfilarsi dall’umana interezza – il tuo sguardo all’indietro senza suono / mentre mi sfili come un guanto il corpo  – tanto che il poeta si sdoppia anche stilisticamente, talvolta io agente e narrante, talvolta guardandosi come un tu al di fuori dei testi, in un’oscillazione tra interno ed esterno che, come mette in risalto Monica Guerra in una lettera a mo’ di postfazione, spezzando l’intero permette di osservarne con maggiore esattezza le angolazioni. Specie quelle della fisicità, che in una continua oscillazione finiscono tuttavia per ricondurre alla dimensione interiore, suscitando precarietà e memoria: offrimi l’obolo per questo vedere da lontano / il tempo, più in là è fuga al niente // tu abiti sempre qui discreto forse / e inventi verità, discuti forte / mi rendi pendolare dal passato // […] // questo era il mio nome / storpialo come puoi / mi fido. E il doppio, nella benedetta ambiguità del testo poetico, per chi ha letto Pecchiari con continuità evoca risonanze ulteriori, forse un tu amato, un’ombra speculare che ha già sperimentato questa tormentosa prevalenza del corpo, perdendolo: le tempeste del tuo sangue / snidano gli animali dentro il sogno, / l’odore dei corpi cambia con il viaggio. // io mi chiamo forse col tuo nome / nel franare verso l’alba / perso nella sua apertura. // tu dovunque davanti inafferrabile. / mi sono alzato ma non parlo, /gli occhi stretti dalla luce.

A questo sdoppiamento spazio-temporale continua ad affiancarsi la dicotomia padre-figlio: potentemente conflittuale ma inevitabile, che si esplichi nelle risonanze di un abbandono biblico universale (In principio verbum non erat), di una crocifissione solitaria e orfana (Lemà sabactàni / quanto di me permane / quanto di noi è noi?), o nell’espugnazione di un figliocancro / forgiato da anni di parole.

Fino al momento della cauta risoluzione finale – di quello che sarà non avremo percezione / lasciamo rimasugli da studiare // non fidarti // si respira sempre senza aria – e a quel Giorno d’uscita, ultima sezione del libro prima del conclusivo After the days, dove senza voltarsi indietro per non farsi sale, il poeta si avvia verso mura ormai aperte senza guerrieri senza figlio ormai / salvo / svuotato. E cautamente, sempre cautamente, speranza e fiducia rinascono nell’assoluta aerea levità del componimento finale che, con la grazia che hanno forse dovuto avere i giorni della Creazione, rievoca un giorno trepido ma perfetto nella ri-creazione vitale del condizionale passato: ci sarà già stato un giorno così? / Con questo stesso imbarazzo che si scusa // […] c’è già stato un giorno così / chissà quanto tempo fa, proprio eguale eguale / con questo stesso viluppo d’aria / la nitidezza dell’andare.
Questo Desunt Nonnulla di Sandro Pecchiari è, fin dal titolo, un lavoro estremamente pensato, colto, strutturato e lavorato, ricco di citazioni e di rimandi biblici, mitologici, letterari, che in un contesto assolutamente contemporaneo e originale schiudono, sovente per ossimoro, significati nuovi e inediti. Molti anche gli accorgimenti stilistici, volti a quel ritmo “franto e sincopato” evidenziato da Giovanna Rosadini nell’introduzione al libro, «che rende lo straniamento del ritorno alla coscienza» e ben si accorda con i numerosi  incisi parentetici che dialogano con le citazioni in esergo. Ma come accade nella grande poesia, che lavora per sottrazione, il dire scorre senza alcun ingombro: nitore, pulizia, affinamento della parola verso significati mai scontati conferiscono ai versi il tagliente brillio di una lama di cristallo.
Secondo le ultime parole del libro, alla fine di questa lettura «Desunt Nonnulla», in effetti. Ma questa mancanza si traduce in un di più, in un arricchimento a cui manca giustamente qualcosa – il poeta ci fa sospettare – perché proprio tutto di un’esperienza che tanto spaura non può essere detto, e perché la poesia è per sua natura ambigua e mai finita. Se per il poeta il resto occupa un mare inconoscibile / dentro che scegliamo / di non attraversare, qualcosa viene a mancare anche in chi legge. Piccole omissioni: nello scavo di noi, nel fluire plasmatico delle risonanze e dei significati che un’opera così a ogni rilettura non cessa di schiudere. Un libro come questo è fatto per diventare livre de chevet, per essere ripetutamente centellinato e attraversato.

 

 

 

Sandro Pecchiari

Desunt Nonnulla
(piccole omissioni)
Arcipelago Itaca, Osimo 2020
Pag. 84, euro 13,00