Il mio Mario Soldati

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Incontri negli anni Ottanta con lo scrittore piemontese

di Diego Zandel

Ho conosciuto Mario Soldati nei lontani anni Ottanta, quando, giovane scrittore, collaboravo al quotidiano romano Paese Sera, occupandomi di libri e scrittori. Mi ero avvicinato al grande scrittore torinese grazie ai buoni uffici di sua moglie, la signora Jucci Kellerman, di origini fiumane come me. Tramite fu all’epoca un giovane istriano, italo-americano, artistoide e un po’ hippie, che rispondeva al nome di Giuseppe Santaleza. Questi, proprio perché in contatto con la signora Jucci, arrivato in Italia, aveva trovato di che vivere andando a lavorare a Tellaro, nella villa di Mario Soldati, aiutandoli a raccogliere le olive del loro piccolo uliveto. Successivamente Santaleza venne a Roma e, grazie all’uscita del mio primo romanzo Massacro per un presidente, edito da Mondadori, romanzo in cui l’elemento istro-fiumano ha la sua rilevanza, entrò in contatto con me. Bastò una telefonata per parlare con la signora Jucci e, attraverso lei, con Mario Soldati, che da quel momento divenne uno dei miei punti di riferimento per interviste di varia natura, non sempre strettamente letteraria.

La prima occasione fu quando, sempre sulle pagine di Paese Sera, iniziai una serie di interviste contrassegnate dal nome “Un luogo, uno scrittore”, e la prima di queste fu proprio quella con Mario Soldati che mi parlò del suo sogno infranto di vivere e lavorare negli Stati Uniti, così come emerso dal suo primo libro “Addio diletta Amelia”, cioè America, dove aveva vissuto, in fuga dal fascismo, dal 1929 al 1931.

“La mia vita” ricordava Soldati “fu spezzata da questo ideale che non sono riuscito a realizzare. E ora vivo nel ricordo di ciò che poteva essere e non è stato. A quest’ora, se continuavo a stare lì, avrei imparato a scrivere in inglese, che già sapevo, ma sarei riuscito a esprimermi compiutamente. Come Nabokov, che è russo, ma è diventato un grande scrittore americano”.

Soldati era partito negli Stati Uniti subito dopo i Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929. Ci andò perché, come tutti i suoi amici democratici e cattolici, non tollerava che la Chiesa avesse firmato la Conciliazione con quel fascismo che solo cinque anni prima s’era macchiato del delitto Matteotti. Proprio la sua opposizione al fascismo lo spinse a emigrare. Parti per gli USA dietro suggerimento di Lionello Venturi, il grande critico d’arte di cui era amico ed era stato suo compagno di università (Soldati si era laureato con una tesi sul Boccaccino). Sul perché non riuscì a diventare americano, questo il suo racconto: “Non estraneo al mio rimpatrio fu Giuseppe Prezzolini, con il quale non ero riuscito a instaurare un rapporto di reciproca amicizia. Anzi, direi che ero piuttosto osteggiato. Prezzolini in quel tempo era direttore della Casa Italiana, che dava alloggio a molti studenti borsisti, tra i quali non mancavano personaggi di rilievo. Io ci vissi un anno e mezzo, finché commisi l’imprudenza di accogliere nella mia camera la ragazza, Marion, che poi, per un certo periodo, sarebbe stata mia moglie. Era proibito portare donne in camera e Prezzolini, che aveva ora un reale motivo per farlo, mi cacciò. Dopo questo episodio ho abitato altrove. Avevo fatto anche domanda per un posto di lettore all’Università della Virginia, ma la richiesta fu respinta. I posti si davano dietro informazioni, e chi poteva darle se non Prezzolini?”.

Non lo aiutò nemmeno il fatto di aver sposato Marion, cioè una cittadina americana. Lo fece in Italia, dopo che lei lo aveva raggiunto, seppur con l’intenzione di ritornare poi nel suo Paese, perché Marion non voleva assolutamente vivere in Italia. Questa sua opposizione si scontrò però con la situazione economica della famiglia di Soldati. “Mio padre” raccontava con la sua voce roca, di fumatore di sigari toscani “aveva subito un tracollo finanziario a causa di alcuni investimenti sbagliati in Borsa ed io mi trovai nella necessità di aiutare lui, mia madre e mia sorella. L’unica strada che mi si aprì fu quella del cinema, grazie ad alcune conoscenze di mia madre alla Cines. Ci andai per forza. Non avevo mai amato il cinema e per un anno vi ho lavorato senza crederci, come se dovessi andare a fare lo scaricatore di porto. Sono diventato regista senza volerlo, grazie a Camerini, del quale sono stato assistente. Quanto al mio matrimonio con Marion, per quanto continuasse a vivere in Italia, tornava negli Stati Uniti ogni volta che aspettava un figlio. Quattro anni dopo il matrimonio naufragò, ci lasciammo di comune accordo. E per me cominciò un’altra vita.”

Ma gli Stati Uniti li aveva sempre nel cuore. Non è un caso che, oltre ad Addio, mia diletta Amelia, essi ritornano in altri libri come America primo amore, La sposa americana, Lo smeraldo, L’architetto. “Uno non vive per scrivere” mi disse “ma scrive per vivere, così io ambiento molti miei libri in America per ripassare questo Paese, rifacendolo, rivivendolo, re-immaginando una vita più lunga in America”.

D’allora con Mario Soldati ci siamo incontrati altre volte, parlando di tanti aspetti della letteratura e della vita. Raccontava come, quando scriveva, cercava di scegliere le parole più semplici e immediate. E non a caso la sua prosa scorre che è un piacere pur a fronte di temi complessi, molti dei quali hanno a che fare con la sua tormentata coscienza di cattolico.

A Roma mi capitò di andarlo a trovare nella casa che aveva nei pressi della via Nomentana. Ricordo che mi parlava mentre si vestiva per uscire, sempre elegante, in camicia e papillon, bretelle, giacca, cappello e bastone. L’occasione era un’intervista sul suo rapporto con Roma, e di questa ho solo alcuni flash come il suo giudizio sul vino dei Castelli, che era buono, ma conteneva troppo solfito.

Un’altra volta, entrambi a Scanno, in occasione dell’omonimo premio letterario (c’era pure Giorgio Bassani) mi parlò del suo barbiere, presso il quale andava a radersi la barba tutte le mattine. Un argomento che toccò dopo essersi recato dal barbiere locale, con il quale si complimentò per la rasatura nonostante l’emozione che manifestava nel fargli la barba, personaggio noto qual’era per le sue apparizioni in importanti trasmissioni televisive, tipo Viaggio nella Valle de Po alla ricerca di cibi genuini che fece epoca.

Il caso volle di trovarmi finalista con lui a un altro Premio letterario importante, il Premio Napoli nel 1987, io con il romanzo Una storia istriana, edito da Rusconi, e il Maestro con Paseo de Gracia, edito da Rizzoli. Mario Soldati era convinto di uscirne vincitore, e attese con impazienza la votazione dei trecento membri della giuria popolare che avevano letto i tre romanzi finalisti: l’altro era I fuochi del Basento di Raffaele Nigro, che vinse. Io arrivai secondo e Mario Soldati, che non gradì, terzo, tanto da andarsene via arrabbiato senza neppure fermarsi alla cena offerta dagli organizzatori. Erano reazioni tipiche del suo carattere fumino, in quel caso dettate dalla necessità dei dieci milioni di lire messi in palio per il vincitore che a lui servivano per sostenere gli alti costi di manutenzione della casa di Tellaro (a riguardo erano usciti anche degli articoli sui giornali dell’epoca), mentre al secondo e terzo classificato toccavano appena due milioni.

Naturalmente, successivamente, non mancai di telefonargli a Tellaro. Lo feci anche dopo la scomparsa della signora Jucci, il Maestro ormai provato e in condizioni che non gli consentivano più quella straordinaria lucidità che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Restava, nella voce, un eco della sua verve e l’incedere tuonante della voce, ma faceva fatica a connettere a lungo i pensieri. Poche parole, per un saluto, poi la cornetta tornò in mano alla giovane badante che lo accudiva.