Il “nostro” Carso

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C’è, su questo territorio piccolo, un affollarsi di istituzioni, di livelli decisionali: chi decide su cosa, in questa foresta vergine istituzionale?

di Roberto Dedenaro

 

In questi giorni di grande preoccupazione per gli incendi boschivi che hanno martoriato una parte del Carso, abbiamo potuto leggere diversi interventi, dal tono molto preoccupato, su organi d’informazione cartacei o digitali che erano, mi sembravano, essere ispirati da un’idea di fondo, su cui mi pare vale la pena di ritornare. Se ho capito bene, si “accusava” la città, genericamente, il pensiero dominante, o non so bene chi di aver in qualche forma dimenticato o tradito il Carso. Mi sono chiesto quanto ciò sia vero e se non sia più utile, passato lo sgomento, un approccio più razionale.

I nomi sono luoghi. Quello che spesso si chiama il Carso, non è un’entità metafisica, ma un territorio fortemente antropizzato e il cui aspetto attuale è frutto, ugualmente, dell’opera dell’uomo che lo abita da svariati millenni.  Esistono diversi modi poi di dividerlo in microzone, quelle amministrative, ad esempio, il Carso triestino e quello goriziano, quello italiano e quello sloveno (la maggior parte), altre che sono adoperate solo da parte degli abitanti di madrelingua slovena, il Breg, ad esempio, sconosciuto agli italiani, in bisiacheria “la monte”e via dicendo . La cultura urbana di Trieste ma quella più in generale scientifica austriaca prima e italiana prima e dopo si è occupata intensamente di questo piccolo territorio, lo testimoniano gli innumerevoli studi e le molteplici guide ai suoi sentieri che dalla fine dell’ottocento ad oggi hanno cercato di descriverlo e di renderlo una meta appetibile per gli svaghi domenicali e non di torme di cittadini alla ricerca di relax. La gran parte di questi scritti ha, a mio parere, una caratteristica di fondo, il territorio di cui si occupa è visto fondamentalmente come uno spazio naturale, i sui abitanti sono dei fantasmi, quasi, o quando ne parlano come nella guida di Gustavo Cumin del 1929, lo fanno in maniera sostanzialmente inaccettabile. E come se avessimo uno zaino sulle spalle da cui non ci riusciamo a liberare, continuiamo a ragionare su queste piste, anche nobili, già tracciate. Si può notare anche come questo legame storico tra città e territorio, tra cultura urbana e luoghi, profondissimo,  sia oggi confermato da alcune pagine Facebook dedicate al Carso che hanno migliaia e migliaia di iscritti, fra trenta e quarantamila. Ma se mutiamo punto di vista, invece, il Carso, per i suoi abitanti è stato ed è ancor oggi un mezzo di sostentamento fondamentale, i suoi campi divisi ancora dai muretti che tanto poesia fanno sono delle proprietà private, che hanno dato negli anni una stentata agricoltura, legname per il riscaldamento, fieno per gli animali. Qualcuno dice non c’è più il Carso di Slataper, il “grido di pietra”, non c’è più perché pochi raccolgono legna e fieno e quasi nessuno vi porta più animali al pascolo. Resta quel po’ d’agricoltura, che dà scarsi risultati, a livello di economia famigliare, qualcosa di più porta la viticoltura e l’olivicoltura, ma si tratta anche lì di piccole, nobilissime, produzioni di nicchia. Questo almeno nel Carso italiano; i campi sono abbandonati perché il lavoro è faticoso e poco redditizio, e così terreni che venivano sfalciati per il fieno più volte in un anno, non lo sono più: le piccole quantità che se ne ricavavano non servono e sono difficilmente raccoglibili dalle macchine oggi in uso, nessuno tiene più quei pochi animali da stalla, che erano il fondamento della sopravvivenza delle famiglie fino agli anni settanta, circa, per cui il fieno serviva. Oggi i campi valgono tendenzialmente poco, almeno che non si riescano a rendere edificabili e questa spiega, in parte, l’invasione edilizia a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, soprattutto nell’ambito del Comune di Trieste, ma non solo. I campi sono stati urbanizzati, cementificati, sono scesi di numero ma le zone rimaste si sono inselvatichite, come in altre parti d’Italia , fenomeno visto anche positivamente da alcuni ambientalisti, perché ha portato una serie di animali a popolare nuovamente le nostre zone, a volte con effetti non auspicabili, come nel caso dei cinghiali la cui proliferazione rende ulteriormente complicata, fra l’altro, l’agricoltura. Esistono poi altri tipi di proprietà, quelle delle “comunelle”, su cui si potrebbe fare un altro lungo discorso. In sostanza, però, la domanda fondamentale credo sia: possiamo convincere i singoli proprietari attraverso una serie di incentivi, immagino, a mantenere in modo diverso le loro proprietà senza costruirci sopra? È quello che veramente ci serve? In questo quadro andrebbe poi inserito l’impatto di attività come gli agriturismi e le tradizionali osmice, che sono, se opportunamente regolamentati, un incentivo a mantenere attività tradizionali di uso e manutenzione del territorio. Mi rendo conto che, in questa mia visone, il Carso sia soprattutto un luogo abitato più che un giardino d’inverno, ma sul monte Volnik/Lanaro, che altrimenti non si chiamerebbe così, prima del camminatore che partiva da Scorcola per firmare un quasi ridicolo libro di vetta, ci andava il pastore con i suoi animali, da secoli. C’è poi, su questo territorio piccolo, un affollarsi di istituzioni, di livelli decisionali: i comuni minori della provincia di Trieste che non c’è più, hanno in qualche caso un’estensione inferiore ad ogni ragionevolezza, la Regione, il Comune maggiore, Gorizia, lo Stato confinante, poi la Forestale, la Protezione Civile, l’Unione Europea, il Governo nazionale, così citando a braccio, chi decide su cosa, in questa foresta vergine istituzionale?

Poi, ci sono gli incendi, delle tragedie, che sono in gran parte di origine dolosa o comunque provocati direttamente dall’uomo, possono essere affrontati in maniera migliore? Probabilmente sì, come ogni cosa che l’uomo fa è migliorabile, ma il loro estendersi in maniera così preoccupante, fatte salve le responsabilità individuali, dipende innanzitutto da elementi che coinvolgono interamente il mondo: il riscaldamento globale e i fenomeni estremi ad esso connesso, non è la nostra cattiva coscienza ad esserci dimenticati del Carso, credo ma il nostro non saper affrontare o non voler vedere un problema di carattere generale che non sarà domani ma è adesso qui e che richiede il massimo di razionalità, scienza, la letteratura serve ma fino ad un certo punto,  e buona politica che possiamo riuscire a mettere in campo.  Il riscaldamento globale ci chiede scelte per il futuro e molta saggezza, politiche innovative, riusciremo a conciliare interessi privati e politiche collettive?

I terreni incendiati ricresceranno, questa è l’unica cosa sicura, il fuoco controllato è un antichissimo modo di fertilizzare i campi, ci vorranno anni ma sicuramente succederà, paradossalmente i guasti di certi interventi edilizi non sembrano reversibili, e di fronte al groviglio di interessi, anche legittimi,  poche voci si alzano, come fossimo colpiti dal particolare e non fossimo capaci di vedere l’insieme, ma non è di questo che discutevano Machiavelli e Guicciardini?.

 

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Foto di Umberto Laureni