Il premio del pubblico alla Storia di un padre

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di Stefano Crisafulli

 

Padri. Presenze che già alla fine degli anni ’70 Giorgio Gaber definiva ‘di nessuna consistenza’, simili a ‘studenti un po’ invecchiati’ che ‘non hanno mai creduto nel mito del mestiere del padre e della sua autorità’. Oggi gli psicologi parlano di ‘evaporazione’ del ruolo paterno e Massimo Recalcati si chiedeva nel titolo di un suo libro pubblicato nel 2011: Cosa resta del padre? E poi sugli schermi appannati dal Covid del trentaduesimo Trieste Film Festival è arrivato questo film del regista Srdan Golubović, che nell’originale serbo si chiama Otac e in italiano significa semplicemente Padre, a restituire almeno per 120 minuti corpo e ruolo alla figura paterna. Golubović ha tratto la storia del film da un accadimento reale e ha dichiarato di ispirarsi da una parte al padre Predrag, anche lui regista (della celebre ‘Onda nera jugoslava’), dall’altra al Wim Wenders di Paris, Texas. Otac ha ricevuto ben due riconoscimenti alla serata conclusiva: il premio CEI (Central European Iniziative) al film che ‘ha meglio interpretato la realtà contemporanea e il dialogo tra culture’ e il premio del pubblico come miglior lungometraggio del festival.

Il protagonista della pellicola trasmessa in streaming sabato 23 gennaio si chiama Nikola ed è il padre di due figli, un maschio e una femmina. Purtroppo è disoccupato e cerca di mantenere la sua famiglia con lavori accaparrati qua e là, a volte nemmeno ricevendo ciò che gli spetta. Per questo la moglie, in un estremo atto di protesta che apre drammaticamente il film, porta i suoi figli presso l’azienda che non ha pagato il lavoro del marito e si dà fuoco. A quel punto intervengono i servizi sociali, che, come più avanti si scoprirà, sono profondamente corrotti, e Nikola si vedrà portare via i due figli, i quali verranno dati in affido ad un’altra famiglia. Ma lui non si arrende e inizia così un viaggio a piedi verso Belgrado per andare a reclamare i suoi figli al Ministero. Durante il percorso attraverso una Serbia costellata di pianure e paesaggi naturali, ma anche di luoghi fatiscenti e in disuso, Nikola incontrerà all’inizio delle persone che lo sconsiglieranno di andare avanti con la sua impresa, alle quali risponderà di doverla fare per ‘dimostrare che ai miei figli ci tengo’. Emblematico il primo incontro in assoluto con un cane, sperduto come lui, in cerca di compagnia, ma per fortuna anche quello con alcuni, rari, personaggi che, in mezzo alla violenza e all’indifferenza della società contemporanea, gli danno una mano a continuare il suo viaggio, come il lavoratore di una pompa di benzina con annesso negozio che gli offre un posto dove dormire o gli sconosciuti che gli portano da mangiare mentre sta continuando la sua silenziosa protesta per farsi ricevere dal ministro sotto l’edificio del potere, dopo esser arrivato finalmente a Belgrado.

Sconvolgente, invece, l’episodio che gli accade quando, dopo esser tornato a casa sua, la scopre svaligiata dai suoi vicini, tanto che, per riprendersi le sue poche cose, è costretto ad andare a recuperarle casa per casa. Un ritratto di un padre tutt’altro che ‘evaporato’, dunque, e di una protesta non violenta e gandhiana verso una palese ingiustizia, che ha colpito il cuore degli spettatori del Trieste Film Festival: non a caso aveva ricevuto il premio del pubblico anche alla Berlinale dello scorso anno. E una grande mano nell’identificazione empatica dello spettatore con il protagonista la fornisce Goran Bogdan, l’attore che ha interpretato Nikola, con una recitazione mai sopra le righe, eppure emotivamente intensa e credibile. Massimo Recalcati rispondeva, in estrema sintesi, alla domanda su che ciò che resta del padre, con ‘la dimensione incarnata della testimonianza’. E Nikola è anche e soprattutto questo: un testimone del suo tempo e del suo desiderio.