Gli spettri dei Balcani

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Le analisi sulla natura dei paesi balcanici nel libro di Robert D. Kaplan

di Diego Zandel

 

Si racconta che il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, intenzionato a intervenire con un’azione di forza per interrompere la guerra nella ex Jugoslavia in difesa dei musulmani bosniaci, rinunciò all’idea dopo aver letto Gli spettri dei Balcani del giornalista Robert D. Kaplan (in Italia edito da Rizzoli nel 2000). È interessante notare che Kaplan aveva scritto il suo libro, che si rivela essere non altro che un libro di viaggio, prima che la guerra nella ex Jugoslavia scoppiasse. Ma, ciò nonostante, emergeva dal suo racconto la litigiosa rivalità tra gli stati che li attraversava e le forti contraddizioni all’interno degli stessi per questioni identitarie, di appartenenza etnica, linguistica, culturale e, non ultima, religiosa, da convincere il presidente americano che a nulla sarebbe valso l’intervento militare, che sicuramente avrebbe implicato rilevanti perdite umane, senza conseguire una pace duratura, vista la natura dei suoi abitanti.

Robert D. Kaplan non era un giornalista di passaggio. Abitava già da sette anni ad Atene, si era sposato in Grecia e lì era nato suo figlio. Negli anni ha avuto modo di conoscere sia quel paese, sia i paesi confinanti, la Bulgaria, Serbia, la Macedonia, l’Albania, la Turchia, e quindi, per quanto potesse essere documentato – tanto da citare nel suo libro titoli e autori dei quali aveva letto i reportage anche nel passato non troppo vicino (una su tutte Rebecca West) – aveva dalla sua soprattutto la lunga esperienza del proprio vissuto.

Nella macroregione dei Balcani egli, a mio avviso, è andato oltre gli Stati che la compongono, comprendendovi anche la Moldavia, un paese poverissimo, schiacciato tra l’Ucraina e la Romania, oggi indipendente, dal punto di vista etnico e linguistico rumeno, ma inglobato fino ai primi anni Novanta, tra gli stati che componevano l’Unione Sovietica, appartenenza che ha avuto un forte influsso sulla popolazione. Sono amico di gente moldava e, seppure parlino entrambe le lingue, il russo e il rumeno, tra loro sento utilizzare maggiormente la prima, in particolare da coloro che sono nati e cresciuti ai tempi del comunismo sovietico, quando imparare il russo era obbligatorio. Anche se la Moldavia è un paese interessante, esempio dei devastanti danni provocati dal comunismo, la cui crisi ha finito col mettere in ginocchio una popolazione che, dall’indipendenza, è diventata terra di migrazioni verso l’occidente, mi sembra azzardato averlo inserito tra i paesi balcanici.

Anch’io in Balcanica ho forzato forse un po’ troppo la mano prendendo in considerazione la Slovenia e l’Ungheria, entrambi paesi più verosimilmente mitteleuropei, ma la prima è stata parte integrante della ex Jugoslavia (con l’aggravio di non aver esitato, pur di appartenere ad essa, di considerare la cosiddetta lotta popolare contro il nazifascismo guidata da Josip Broz Tito soprattutto occasione e motore di annessione alla stessa al punto di considerare nemici gli stessi partigiani italiani che vi si opponevano); la seconda, cioè l’Ungheria, l’ho considerata invece troppo implicata nella storia sia della Croazia per tutto il Settecento e Ottocento, così come della Serbia, paesi con i quali confina al punto da avere all’interno delle stesse una rilevante popolazione di etnia e lingua ungherese, in particolare nella Vojvodina, cioè quella che, proprio per questa presenza ungherese, ha goduto dello stato di provincia autonoma nella Federativa Jugoslava. D’altra parte, per restare nella letteratura, basterebbe il nome di un significativo scrittore jugoslavo di origine ungherese come Danilo Kiš per giustificarlo, ma anche uno come Dezso Kosztolanyi.

Kaplan, viceversa, salta praticamente questi due paesi, la Slovenia e l’Ungheria, e apre il suo libro con la Croazia, indubbiamente, da Fiume a est ormai parte dei Balcani, anche se, a sentire i croati, come già prima gli sloveni, questi in realtà comincerebbero con i paesi confinanti più a sudest, ma è un ritornello che ciascun paese recita nei confronti del paese che hanno più a sud, quasi fosse una vergogna essere considerati balcanici. E il motivo, perlomeno sotterraneo in questo caso, è proprio quello che, portato alla luce da Kaplan, ha più spaventato Clinton, facendolo desistere da azioni che nulla avrebbero potuto cambiare rispetto a un destino già segnato nei secoli dal loro carattere, da molto prima della guerra nella ex Jugoslavia, facendo appunto così dedurre che un intervento militare, lontano dall’essere risolutivo, avrebbe solo aggiunto altre vittime alla guerra in corso.

Però sta proprio qui, se vogliamo, il fascino dei Balcani, in questo pozzo senza fondo da cui le popolazioni che li abitano offrono motivi di interesse continuo che li fa soggetti di grande curiosità, oggetto di analisi, viaggi, associazioni, siti, organi di informazione che li raccontano attraverso i continui eventi traumatici dei quali sono protagonisti, nel non mutare di un’indole e di costumi di vita costanti nei secoli. Per quanto riguarda questi ultimi, è indubbia l’ospitalità verso lo straniero, la generosità, la forza primigenia di certi valori, come i legami di sangue e di clan, nelle relazioni umane, l’intensità della devozione religiosa dai tratti, però, anche questi ultimi, etnici prima ancora che spirituali. Ma sono tutti aspetti che, se positivi da un lato, dall’altro producono pretesti per continui conflitti che rischiano ogni volta di innestarsi in dinamiche che danno la stura a una violenza e crudeltà senza limiti della quale la storia ha dato testimonianza nei secoli fino agli anni più recenti.

Sono questi aspetti che producono gli spettri dei Balcani del titolo del libro di Kaplan, tanto da far dire allo stesso, nel corso dei suoi viaggi: “Mi colpì quanto i Balcani, in termini di tempo e di spazio, fossero lontani dalla Storia”. Nel senso che la loro Storia è un ripetersi di eventi più o meno simili, generati da pulsioni ataviche, tali da esprimere una storia sempre uguale nelle cause e negli effetti, seppur collocata in momenti e situazioni ovviamente diversi.

La Croazia, che Kaplan visita alla vigilia della guerra nella ex Jugoslavia, della quale sarà protagonista, è la Croazia che in sublimine, anche durante il regime di Tito è sempre stata nazionalista e cattolica, materia prima di un tessuto che non si è mai strappato negli anni dal tempo degli ustaša e che il sopraggiunto avvento di Tuđijman ha riportato alla luce dopo il periodo di oscurità, ma sarebbe meglio dire di clandestinità, vissuto nel comunismo e che molto bene si evince dal colloqui che Kaplan ha avuto con monsignor Duro Koksa “il personaggio più importante della Chiesa croata degli anni Ottanta e dei primi Novanta”, il quale contestava l’intenzione dei comunisti di pubblicare i diari del cardinale Alojzij Stepinac, beatificato da Giovanni Paolo II, nonostante le sue complicità nei crimini commessi dal regime di Ante Pavelic al quale apertamente aderiva. Risponde a riguardo monsignor Koksa: “Solo la Chiesa ha il diritto di concedere il permesso di pubblicare i diari, non i comunisti”. Quanto alle complicità di Stepinac nei crimini ustaša, risponde: “La guerra è sempre in parte criminale. Perché scegliere solo Stepinac? Non possiamo negare tutto. Quello che accadde a Jasenovac è stato tragico, forse furono uccise sessantamila persone, forse un po’ di più, certamente non settecentomila” (butta lì i numeri di vite umane come se si parlasse di noccioline n.d.r), per poi subito sottolineare: “La Croazia è la martire di tutta la Jugoslavia. Il nostro nazionalismo è giovane, non si è nemmeno realizzato (ma si realizzerà presto, con la guerra, n.d.r). Ma tutto questo è troppo complicato perché lei lo capisca. E una questione di mentalità”. E alla domanda di Kaplan sul perché non fare come Brandt che nel 1970 cadde in ginocchio in segno di pentimento davanti al monumento alle vittime ebree del ghetto di Varsavia, monsignor Koksa chiude il discorso: “Che siano i comunisti a cadere in ginocchio come Brandt, non la Chiesa!”. Tutti i capitoli successivi a questi relativi alla Croazia, anche con riferimento al passato traducono questo sentimento nazionalista che è poi stato all’origine del lungo disagio croato di fronte all’influenza che la Serbia ha avuto nella costituzione della Jugoslavia comunista, tanto che – ma lo vedremo con l’occhio del poi, che a Kaplan in quel momento mancava per ovvie ragioni – esploderanno nel corso della guerra jugoslava e successivamente con l’eliminazione di tutti gli elementi serbi, linguistici, culturali, religiosi, presenti sul territorio croato.

Analoghi atteggiamenti nazionalistici e identitari incontriamo in Bulgaria, in rapporto con i Turchi. Uscita dall’impero ottomano e dalle guerre balcaniche, entrata nell’orbita del comunismo sovietico, di un’esperienza pertanto dittatoriale che nella pratica nulla aveva a che fare con un movimento che si voleva internazionalista, la Bulgaria sente il bisogno di purificare la propria razza costringendo i turchi, circa novecentomila persone, ben il 10 per cento della popolazione che vive nel paese, a cambiare il nome. Scrive Kaplan: “I loro nomi dovevano cambiare da Mehmet a Mikhail, e così via. Normalmente succedeva a notte fonda. Il frastuono dei cingolati dell’esercito e la luce accecante delle fotocellule turbavano il sonno di ogni villaggio di etnia turca. I miliziani entravano in ogni casa e consegnavano un modulo prestampato a ogni capofamiglia sul quale quest’ultimo doveva scrivere i nuovi nomi bulgari di tutta la famiglia. Chi rifiutava, o anche solo esitava, era costretto a stare a guardare mentre i soldati violentavano mogli o figlie. Secondo i rapporti di Amnesty International e di alcuni diplomatici occidentali, migliaia di uomini erano stati picchiati brutalmente e centinaia giustiziati. Altre migliaia erano stati imprigionati o costretti all’esilio interno”.

Analogo discorso va fatto per gli ungheresi della Transilvania nella Romania di Ceausescu. Ma meccanismi di rivalità per ragioni etniche attraversano gli interi Balcani, compresa la Grecia, con la quale il libro si chiude. È annosa la questione della Grecia con la Macedonia, in ragione delle origini del macedone Alessandro Magno che era greco, così come le tensioni sempre vive con l’Albania, il cui sud è abitato da popolazioni greche, o con i turchi a est.

“A Komotinè” scrive Kaplan “donne turche velate di nero passarono accanto al mio finestrino. Vidi moschee diroccate, imprigionate su tre lati da alti edifici, e dalla parte opposta un cimitero greco ortodosso dal prato ben tenuto e protetto da cipressi. Exo Tourkos (Via i Turchi) dicevano i graffiti scritti con le bombolette sul muro scuro di un edificio”. Arrivato ad Adrianopoli, che ora divenuta turca si chiama Edirne, scopre i campi profughi che raccolgono fuggitivi dalla Grecia e, soprattutto dalla Turchia. D’altra parte, la storia di questa città è emblematica del suo essere un crocevia di queste violenze perpetrate nella storia, a cominciare ovviamente da quelle dei turchi.

“Nella prima guerra balcanica del 1912, truppe bulgare e serbe tolsero Adrianopoli ai turchi ottomani; poi i turchi ripresero la città nella seconda guerra balcanica del 1913, solo per perderla di nuovo di fronte a un esercito greco d’invasione nel 1920. Nel 1922, prima della definitiva cattura di Adrianopoli da parte delle forze di Atatürk, Ernest Hemingway vi trascorse una delle peggiori notti della sua vita, ammalato di malaria su un letto brulicante di pidocchi. Tutta la sofferenza del conflitto greco-turco era racchiusa nella sua descrizione dei profughi greci, ‘che camminavano alla cieca nella pioggia’. Oggi i profughi di Hemingway erano tornati, solo che questa volta erano turchi”.

La Grecia, per quanto anche i suoi abitanti e molti filoelleni, non la considerano balcanica, lo è, eccome! Kaplan, che l’ama, come me, dedica un ampio capitolo alla sua storia più recente, molto prima che scoppiasse la crisi economica attuale, lasciando emergere i tanti aspetti balcanici che la caratterizzano e che non la distinguono dagli altri paesi a nord. Dittature, guerre civili, democrazie manipolate da leader, come Karamanlis e Andreas Papandreu, il quale ultimo si è rivelato, nella gestione del potere, più un satrapo che un uomo di stato, si sono alternati alla guida del paese in un mix di violenze e rivalità, di conflitti tra clan e clientele che sono il tessuto stesso della convivenza di un popolo che, comunque, sente forte la propria identità. E anche la propria storia. “Quel certo non so che posseduto dalla Grecia e che mancava ad altri paesi – unico eppure tanto famigliare – era un misto impeccabilmente dosato di atmosfere orientali e occidentali” scrive Kaplan “Le quarte ululanti della musica del bouzouki, materia prima del tema principale di Hadjidakis per Mai di domenica, sono in realtà strettamente apparentate ai ritmi bulgari e serbi e sono cugine di primo grado della musica turca e araba, che, ascoltata in forma pura, dà il mal di testa alla maggior parte degli occidentali. Eppure, setacciati da un filtro musicale mediterraneo, questi suoni monotoni e orgasmici dell’oriente affascinano l’orecchio occidentale, specialmente quando li si ascolta nello scenario di un’isola cicladica come Mikonos. La grazia astratta della scultura e dell’architettura isolane delle Cicladi nel terzo millennio a.C. è stata l’elemento seminale dei valori artistici che duemila anni più tardi hanno creato il Partenone. (…) Il mito turistico greco dipendeva da questa ricetta delicata eppure acuta: l’essere la Grecia un summa dei Balcani e nel contempo qualcosa di diverso; l’essere la Grecia a soli novanta minuti d’aereo dai fastidiosi e pericolosi odi del Medio Oriente, eppure anche a milioni chilometri di distanza”.

Concludendo, nel loro insieme tutti i paesi balcanici hanno forti elementi comuni, e tra essi alcuni più forti. Sicuramente tra questi, per entrare nel merito di alcuni aspetti strettamente popolari come la cucina e la musica, comprese le danze, hanno caratteristiche molto simili tra i paesi musulmani e ortodossi della regione. E se non sono questi specifici aspetti a caratterizzare il loro legame ce ne sono altri, anche in questo caso con i paesi cattolici, che li assimilino come la matrice linguistica e la natura di clan che caratterizza il potere, la lotta per esso e la sua gestione spesso personale in una dimensione di continui ribaltamenti che, pur in presenza di una struttura formalmente democratica, rende sempre incerta la vita politica e il governo dei cittadini, su un tessuto però di tradizioni, costumi e valori ancestrali. Tutti elementi questi che peraltro nutrono la letteratura dei singoli paesi.