IL MONDO È LÀ

| | |

Arte moderna a Trieste. 1910-1941 (seconda parte)

di Walter Chiereghin

 

Prima di addentrarsi negli anni Venti la mostra allestita al Magazzino delle idee riserva un piccolo omaggio ai critici di una nuova generazione, che si affacciavano allora su un’area di cui Silvio Benco, ormai nella fase di un’avanzata maturità anagrafica e professionale, rimaneva comunque il dominus della critica militante triestina. L’omaggio si concreta nell’esposizione di due ritratti, quello di Dario de Tuoni è opera di Enrico Fonda, mentre quello di Manlio Malabotta, oltre che critico noto anche come avveduto collezionista, fu realizzato da Adolfo Levier.

E irrompono finalmente, in sonoro ritardo rispetto alla realtà nazionale, le avanguardie, nella storia di questa prima metà del Novecento e nella mostra che intende illustrarla: il Futurismo, del tutto ignorato a Trieste nelle sue prime espressioni, trova in Giorgio Carmelich un interprete di qualità, anche se l’adesione a quel movimento fu per lui di breve durata, in quanto il giovane artista (vissuto soltanto ventidue anni) si rese presto persuaso che il Futurismo aveva fatto il suo tempo e si convertì a una pittura più legata alla tradizione, come testimoniano le opere nella successiva sezione della mostra, intitolata “Ritorno all’ordine” che mette a confronto uno stesso soggetto interpretato da Carmelich in forme dapprima futuriste e successivamente maggiormente ancorate a una percezione realistica, per approdare alla fine del suo troppo breve percorso alle forme del Realismo magico.

E gli sloveni? Come ci informa Giulia Giorgi nel suo contributo al bel catalogo della mostra (oltretutto venduto a un prezzo “politico” di soli 10 euro), fin dagli inizi del ’900 le due comunità autoctone triestine, italiana e slovena, si mantennero separate anche in ambito artistico, sulla base di pregiudizi politici di stampo nazionalistico destinati ad aggravarsi dopo la fine del conflitto e la modifica dei confini conseguente all’annessione all’Italia dei territori giuliani in precedenza inglobati nell’Impero austro-ungarico. Con l’avvento al potere del fascismo, ovviamente, le cose si esasperarono ulteriormente, ma già in precedenza l’incendio appiccato al Narodni Dom dagli squadristi di Francesco Giunta pose un’ipoteca negativa destinata a perdurare per diversi decenni nei rapporti tra le due comunità. In quella sede, nell’edificio cioè progettato da Max Fabiani, era stata presentata nel 1907 una mostra d’arte slovena, la prima allestita a Trieste, essendo stata preceduta da altre due (1900 e 1902) a Lubiana. Nel 1927 una collettiva di artisti sloveni s’inaugurò presso l’ufficio postale di San Giovanni, ma due giorni dopo venne chiusa per disposizione della polizia, senza che nessun organo di stampa, nemmeno l’organo sloveno Edinost, ne desse notizia.

Avgust Černigoj, unico triestino a studiare alla Bauhaus di Weimar, riuscì nonostante le difficoltà frapposte dal regime, a lavorare ed esporre anche alle Sindacali triestine, organizzate dal Sindacato fascista degli artisti, per il suo indiscusso ruolo di leader del movimento costruttivista che aveva attirato su di sé anche alcuni artisti di nazionalità italiana.

Altri esponenti di spicco della cultura slovena, e segnatamente di quella frazione di essa legata alle arti visive, quali Milko BambiČ, Ivan Čargo, Veno Pilon e Luigi Spazzapan scelsero la via dell’esilio, chi nei territori della Jugoslavia, chi a Parigi, chi altrove in Italia, come Spazzapan che si trasferì a Torino, dove meno invasiva si manifestava l’ingerenza della politica, informata a un’esasperazione dei toni ultra-nazionalisti che quasi “naturalmente” s’inaspriva nei territori dove forte era la presenza di popolazioni allogene.

Veno Pilon, prima d’incontrare a Parigi la fotografia che avrebbe costituito il suo secondo campo d’azione, fu attivo anche a Trieste dove importò temi e stilemi della Nuova oggettività di matrice tedesca, puntualmente registrati dalla mostra organizzata dalla Provincia, alcuni dei quali ricordano da vicino le opere di Otto Dix.

Ma negli anni Venti, soprattutto a partire dalla seconda metà, si fa pressante l’appello per il “ritorno all’ordine”: è del 1925 il Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Gentile, cui avrebbero aderito, tra gli altri, Soffici, Pirandello e Marinetti, il quale di lì a pochi anni avrebbe concluso la sua parabola di incendiario vestendo l’uniforme blu e argento di accademico d’Italia, in una patetica caricatura di sé stesso con tanto di spadino e feluca. Un’interessante sezione della mostra mette a confronto opere di autori triestini in questa fase “tra dipinti con soggetti simili realizzati a poca, rilevante, distanza d’anni, gli stessi nei quali il glorioso Circolo Artistico permuta la sua attività espositiva nel Sindacato fascista delle Belle Arti. La modella di Pietro Marussig asume la classica compostezza del Novecento, quella di Bruno Croatto pare passare dai saloni delle Biennali e Secessioni d’inizio secolo alla scuola di Felice Casorati […] la bottiglia di Carmelich, prima scomposta in un turbine di colori è già nel 1925 plasticamente modellata quasi in monocromo” (Lucchese, dal catalogo della mostra, ndr).

S’infittivano in quegli anni i rapporti con la grande pittura italiana coeva, e la mostra ne fornisce documentazione esibendo nature morte e paesaggi di Ardengo Soffici e Felice Casorati, di Ottone Rosai, Carlo Carrà e Achille Funi, quest’ultimo, che da tempo aveva abbandonato gli esordi futuristi per fondare con altri il gruppo di Novecento, presente con un dipinto, Trieste (1933), una ricostruzione di fantasia di alcuni elementi architettonici e paesaggistici.

La breve stagione del realismo magico è rappresentata in esposizione da opere ancora di Carmelich, oltre che di Arturo Nathan, del quale viene tra l’altro presentata una piccola, splendida tecnica mista, Melanconia del naufragato, del 1928, proveniente dal Museo d’Arte di Tel Aviv. E sempre di Nathan e dei suoi amici e sodali di quegli anni, Leonor Fini e Carlo Sbisà, sono riunire dopo più di otto decenni tre opere che costituiscono un episodio importante del loro impegno creativo, e insieme l’apogeo e l’inizio del declino del Realismo magico triestino. Furono difatti esposte assieme in una mostra milanese dell’inizio del 1829: Sbisà si presenta con Magia, la Fini con La figlia del pasticcere (o La golosa) e Nathan con L’abbandonato, in precedenza intitolato Il cavallo compassionevole, un titolo trovato da Carrà “tremendamente letterario” e forse per questo lasciato cadere dall’autore. A pochi passi da questa triade, un altro capolavoro di Sbisà, una Città deserta, entro la quale si aggira solitario un San Giorgio mutuato dal Carpaccio, in un contesto urbano che è reinterpretazione della Città ideale di Urbino.

E non è affatto finita: al visitatore che può continuare ad aggirarsi avendo per compagni autori più o meno celebrati che agirono, a Trieste, ma anche a Fiume (Romolo Venucci e Odino Saftich) e nel vicino Friuli (Alessandro Filipponi, Afro Basaldella e Fred Pittino), negli anni dell’ultimo decennio preso in considerazione della mostra, quando la città cambia la sua stessa fisionomia con gli interventi di demolizione della città vecchia, con il riportare alla luce vestigia dell’epoca romana, con un nuovo assetto urbanistico ed architettonico del centro con gli interventi di Umberto Nordio e di Marcello Piacentini.

L’ultima sezione della mostra, intitolata ”Dalle collezioni al Museo”, allinea riassumendoli i contenuti di un’esposizione del marzo 1941 tenutasi alla Galleria del Corso. Si tratta, tra l’altro, di una parte della ricca collezione di Mario Rimoldi, tra l’altro comprendente una magnifica Natura morta con ombrello, di de Pisis, nonché un olio di Campigli, La spiaggia e anche un bronzo di Arturo Martini, l’uomo della Maremma.

Come rileva nel catalogo Patrizia Fasolato “L’arte, sofferente entro gli schemi delle esposizioni del Sindacato, trova anche negli anni che precedono il secondo conflitto mondiale nelle Gallerie private il luogo dove maturare un costante confronto con quanto avveniva al di fuori dei confini cittadini e con filoni ormai «storicizzati».”

Il mondo, in quel decennio carico di luci ed ombre, si avviava al macello del secondo conflitto mondiale, ulteriormente abbruttito, se possibile, dalle persecuzioni contro gli ebrei, che proprio a Trieste, nel 1938, erano state anticipate in un discorso di Mussolini in una piazza Unità strapiena di gente. In quella ulteriore follia criminale si persero nei lager nazisti Nathan e Parin. Altri lasciarono Trieste per trovare ambienti più ricettivi altrove, nei grandi centri italiani o all’estero.

Dopo, anche qui, nulla fu più come prima.

 

 

Il mondo è là.

Arte Moderna a Trieste. 1910-1941

Magazzino delle Idee

Corso Cavour (ingresso dal lato mare)

Trieste dal 1° novembre 2015 al 6 gennaio 2016

PROROGATA FINO AL 31 GENNAIO 2016 Per informazioni: 040 3798500

 

Orari  martedì e mercoledì 10 -13  giovedì 10-13 e 14-17  venerdì, sabato, domenica10-13 e 15-19  lunedì chiuso  25 dicembre chiuso

Ingresso gratuito

 

Aperture festive

giovedì 31 dicembre 10-13

venerdì 1 gennaio 15-19

mercoledì 6 gennaio 10-13 e 15-19

 

 

August Cernigoj, Chaplin. Oscillazioni, 1926, Istituto teatrale Sloveno, Lubiana

Carlo Sbisà, Città deserta, 1929, Olio su tela, Collezione privata

fig  2