PRENDINE ANCORA UN PO’

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di Giuseppe O. Longo

 

 

All’uscita della scuola c’è la solita confusione di macchine in doppia e tripla fila, genitori che chiamano i figli attraverso i finestrini abbassati, le due guardie che osservano senza darsi granché da fare. Lui si fa largo tra i compagni vocianti, dice ciao a un paio che lo salutano con un sorrisetto, abbassa gli occhi davanti a tre ragazze della sua classe che bisbigliano, una ha il capo avvolto in un morbido cappuccio di lana.

Ha smesso di nevicare, le strade sono già state spalate, qua e là il cielo si apre. Quasi gli dispiace che nell’aria chiara tremi d’un tratto il sole. Guarda a destra e a sinistra con cautela. Sta per attraversare la strada quando vede Guido fermo all’angolo. Guido è il suo compagno di banco.

– Non vai a casa?

– Sì, ma aspetto i miei. Oggi vengono a prendermi con la macchina.

– Ah. Allora ci vediamo domani.

– Aspetta, non vuoi un passaggio?

– Be’, se arrivano subito. Se no vado a piedi, tanto non è lontano.

– Arrivano subito, ti dico. Mia madre doveva fare delle compere e mio padre l’ha accompagnata in città. Adesso vengono. Tanto i negozi chiudono all’una.

Guido è mingherlino, quando parla una vena del collo gli s’ingrossa come una corda e gli occhi azzurri si muovono di qua e di là come se cercassero qualcosa che non si vede. È sempre elegante. È figlio di gente ricca, sua madre è bella.

– Senti, è meglio che vada. La nonna mi aspetta.

– Come vuoi. Però un pomeriggio potresti anche venire da me. Facciamo i compiti insieme.

– Sì, va bene… Ciao.

S’incammina sul marciapiedi nero, bagnato. La stradina sale ripida per un centinaio di metri, fiancheggiata da alberi spogli. Quel tratto è faticoso, quando arriva alla piazzetta in cima alla salita è tutto sudato, sente la maglietta inzuppata sotto la camicia, le cosce che s’incollano. Poi deve fare ancora un paio di isolati in piano, ma non gli basta per riprender fiato. Passando davanti alle rare vetrine evita di guardarle. Si vergogna perché è grasso e non vuole vedersi.

Sale lentamente le due rampe di scale, preme il campanello, due suoni brevi, uno più lungo: è il suo segnale. Sente subito i passi della nonna e s’irrigidisce in attesa dell’abbraccio di lei.

Dài, Marco, entra. Avrai fame. Vieni, togliti il cappotto.

Marco appoggia la cartella sul pavimento di legno tirato a lucido, poi ci ripensa, si china a fatica, la riprende e l’appoggia sulla cassapanca. Si sbottona il soprabito, si toglie il berretto e già lì nella minuscola anticamera piena di ninnoli e di quadretti sente l’odore dei cibi che lo attendono. Si avvia verso la cucina, trascinando sotto i piedi i pattini di feltro che la nonna impone a tutti. Entra, si muove con circospezione fra il tavolo, la credenza e il frigorifero, raggiunge il suo posto. La finestra della cucina dà su un cortile buio, per cui d’inverno si deve tenere la luce sempre accesa. Marco guarda di sguincio la lampada, un piatto di porcellana pieghettato, color panna, che riflette verso il basso la luce abbagliante di una lampadina da cento candele.

– Oggi sei un po’ in ritardo, sai?…

– Cinque minuti, dice lui sbirciando l’orologio, il cinturino affondato nel polso roseo. Con una mano si ravvia i capelli appiccicati alla fronte.

– Non devi farmi stare in pensiero. Sai che sto in pensiero, se ritardi. Anche di cinque minuti.

Di fronte alla tavola apparecchiata, su un trespolo, c’è il televisore acceso. La nonna tiene sempre il televisore acceso, a ore fisse cambia stazione, se il programma le interessa alza il volume, ma non spegne mai. Marco si siede davanti al suo piatto, voltando le spalle all’apparecchio.

– Comincia, comincia, io vengo subito.

Lui immerge la forchetta in una montagna di spaghetti conditi con un ragù denso, di un rosso violento, e comincia a mangiare bevendo grandi sorsate di aranciata da un bicchiere col manico. Masticando fissa la credenza che ha di fronte, il vasetto coi fiori di stoffa, le cartoline infilate nell’angolo della vetrina, il calendario della Coca Cola con la ragazza bionda. Cerca di non sentire il vociare continuo del televisore. Adesso ci sono i cartoni animati, quelli giapponesi. La nonna si dà ancora da fare intorno ai fornelli, frigge qualcosa in una padella nera. Ad un tratto sobbalza:

– L’una e mezzo, c’è la mia puntata!

Afferra il telecomando e cambia programma, alzando il volume. Marco si volta un attimo verso lo schermo, vede le scritte che scorrono dall’alto in basso, poi si concentra di nuovo sul piatto.

– Tu non guardi mai la tivù, Marco. Non ti piace?

– Non m’interessa.

La montagna di spaghetti è quasi sparita. La nonna continua a friggere, gli occhi fissi sul televisore. Dalla padella sale un fumo acre. La superficie della credenza è appannata dal vapore.

– Ecco, questa è cotta. E tu, non hai ancora finito gli spaghetti? Ne vuoi ancora? Prendine ancora un po’. Ecco, così, solo due forchettate. So che ti piacciono.

Marco aggredisce la razione supplementare, gli occhi fissi sulla ragazza della Coca Cola che gli sorride offrendogli una bottiglietta ghiacciata. Adesso però deve smettere di guardarla, perché la nonna si siede di fronte a lui, un po’ di sbieco per seguire il teleromanzo, e mangia due fili di pasta al burro. Poi si alza, prende la padella e ne estrae una bistecca enorme, gocciolante, che lascia cadere nel piatto del nipote, sugli ultimi spaghetti. Marco afferra il coltello e comincia a tagliare la carne, addenta con avidità il pane che lei gli ha messo davanti, tagliato a grosse fette. Via via che mangia si sente invadere dal torpore, gli odori e il caldo della cucina lo stordiscono. Le voci della tivù gli giungono da molto lontano. Mastica e inghiotte la bistecca, il pane, un piatto di patate fritte bollenti, un pezzo di formaggio, qualche oliva, bevendo di continuo l’aranciata dal bicchierone col manico. Con uno sforzo si alza da tavola spingendo indietro la sedia.

– E il dolce?

– No, il dolce non lo voglio.

– Ma come, non puoi stare senza dolce, lo mangi sempre…

– Oggi non ne ho voglia.

– Ma devi mangiarlo… mangialo, ti prego. Fallo per me. Lo sai che mi preoccupo se non lo mangi. Perché non mi vuoi far contenta? Ti chiedo così poco…

– Va bene. Però lo mangio per strada. Lo porto via.

– Allora te lo incarto. Aspetta un momento..

La nonna apre un cassetto della credenza, prende un pezzo di carta oleata e un sacchetto di plastica, fa un pacchetto del dolce, poi lo lega con due elastici.

– Ecco, Marco, prendi. Vai già via?

– Sì, devo fare molti compiti.

– Copriti bene, mettiti i guanti. Oggi fa freddo. E studia, sai, mi raccomando. Come va a scuola?

– Bene.

– Sei stato interrogato?

– No.

– Ti hanno portato qualche compito?

– Sì, quello di italiano.

– Ah, e quanto hai preso?

– Sette meno.

– Bravo, il mio Marco. Domani ti faccio un bel regalo. Mettiti il berretto, così. Mi telefoni, dopo?

– Va bene, ti chiamo prima di cena.

– Di’ a tua mamma che mi può telefonare anche lei, ogni tanto. Sono sempre sua madre, no?… Be’, ci vediamo domani, allora. Che cosa vuoi che ti faccia da mangiare?

– Quello che vuoi, è lo stesso.

– Posso farti le polpette, e magari gli gnocchi. Ti piacciono gli gnocchi, no? Adesso salutami, dammi un bacio.

Marco sfiora con il viso roseo e sudaticcio la guancia della nonna, prende la cartella dalla cassapanca e comincia a scendere le scale. Quando è giù sente la nonna che chiude piano la porta.

Fuori il cielo si è riannuvolato, forse nevicherà di nuovo. Passa una macchina scura, gli sembra quella di suo padre, no, la targa è diversa. Marco cerca di non pensare al padre che se n’è andato, cerca di non pensare alla sua casa vuota, a sua madre che tornerà stanca dal lavoro, mangerà con lui in silenzio quelle cose fredde che compera in rosticceria, gli chiederà distratta come va a scuola, andrà a fare una doccia bollente e si chiuderà in camera sua a leggere per ore e ore, lasciando poi la luce accesa tutta la notte. Oggi potrebbe telefonare a Guido, potrebbe andare a fare i compiti da lui. Ma subito gli viene in mente quella mamma così bella ed elegante, allora lascia perdere.

Girato il primo angolo, si avvicina a un bidone dell’immondizia, ne solleva il coperchio. Si guarda intorno, poi lascia cadere il pacchetto col dolce sopra il mucchio della spazzatura. Richiude con un tonfo e riprende a camminare movendo a fatica le gambe enormi.

 

* * *

 

– Pronto, Guido? Sono io… Marco

– Ah, ciao.

– Volevo dirti… Vuoi che facciamo i compiti insieme?

Ha fatto uno sforzo immenso per chiamare il compagno, e quando arriva alla villa sudato e ansimante è già pentito della sua decisione. Un atrio luminoso, corridoi lucidi, tende alle finestre, la stanza di Guido. Adesso Marco riesce a guardarsi intorno: la stanza è accogliente, libri e giornalini dappertutto, una scrivania con il computer e lì accanto una console. In un angolo un letto. Guido ha una tuta grigia con strisce rosso e oro.

Marco è intimidito, vuole fare subito i compiti, uscire da quella casa troppo bella, tornare nella sua stanzetta, ma l’altro insiste per fargli vedere qualche videogioco, gli mostra i segreti del computer. Marco guarda appena, si rigira la biro tra le mani sudaticce.

Finalmente anche Guido si decide, si mettono a fare i compiti, e Marco si sente sollevato. Per un’ora studiano, scrivono sui quaderni scambiandosi qualche rada parola.

– Sono le cinque, dice Guido, tra un po’ torna mia mamma. Ci porterà la merenda.

Marco è spaventato. Quella mamma lo intimidisce troppo. Ma Guido interrompe i suoi pensieri.

– Adesso ti faccio vedere una cosa.

Scava in un angolo sotto un mucchio di riviste, ne tira fuori una e la mette sul tavolo.

– Guarda.

E comincia a sfogliare le pagine. Marco vede confusamente forme rosate e curve, capelli neri e biondi. La vista di un seno ignudo eretto in primo piano, con i capezzoli turgidi gli dà una lieve vertigine. Vorrebbe distogliere lo sguardo, ma non ci riesce, l’altro gira le pagine lentamente, dicendo guarda questa, guarda questa. E Marco guarda, bevendo una pozione tossica ed esaltante. Sente uno strano rimescolio, guarda quei ventri ricurvi, quegli ombelichi ombrosi e gli sembra di essere in un altro mondo.

Bussano alla porta che subito si apre. Entra la mamma di Guido, elegante, sorridente nella sua bocca rossa di labbra e bianca di denti splendidi. Guido con calma nasconde il giornale sotto i libri di scuola.

– Ciao, Marco, che bella sorpresa. Ciao Guido. Studiate? Bravi ragazzi. Adesso vi porto la merenda.

– Che cosa c’è oggi, mamma?

– Vedrai, una sorpresa.

Marco guarda in tralice la bocca e i capelli ariosi della mamma di Guido, poi le guarda il petto e subito gli vengono in mente le donne che ha visto un attimo prima, e si sente avvampare. Sotto anche lei deve avere quelle forme rotonde e rosate. Per distrarsi Marco fissa il muro e cerca di non pensare a niente. Guido ridacchia, invece a lui chissà perché viene da piangere.

Dopo un po’ la signora porta un vassoio con i panini e l’aranciata e pezzetti di cioccolata in una coppetta di vetro scintillante. Li guarda mangiare, Guido addenta un panino con gusto, Marco sbocconcella il suo con malavoglia.

– Non hai fame, Marco?

– Ho mangiato molto a pranzo…

La signora scoppia in una risata bellissima, piena di slancio, a bocca spiegata. Marco si sente morire.

– Almeno un po’ devi mangiare.

Tutti vogliono che lui mangi. Ma qui è diverso, l’invito non gli viene dalla nonna distratta e ansiosa, ma da questa mamma luminosa come una creatura del cielo. E Marco mangia, mangia con impegno come per una dolorosa promessa, evitando di guardare ancora la mamma di Guido, evitando di guardare Guido, lanciando ogni tanto un’occhiata ai libri di scuola, sotto i quali c’è il giornale delle donne nude. Donne nude, si ripete come un ritornello velenoso dal quale non riesce a liberarsi. Dopo un po’ non gli sembra neppure di aver guardato quelle cose, poco prima, gli sembra un sogno dal quale fatica a scuotersi, dal quale lo scuote ora la mamma di Guido, che gli sta chiedendo qualcosa, poi lo guarda incerta e poi ride di nuovo, ma piano, questa volta, come se fosse preoccupata per qualcosa.

Quando la signora esce, Guido prende la rivista e la nasconde di nuovo nell’angolo, sotto il mucchio dei giornalini.

– Adesso devo andare.

Marco si alza, raccoglie le sue cose. Guido cerca di trattenerlo.

– Ma è presto, dài, resta ancora un po’. Ho altre cose da mostrarti…

Marco è già nel corridoio. Guido grida per farsi sentire:

– Mamma, Marco va via…

Si apre l’uscio di una stanza e la signora si affaccia. Adesso ha una vestaglia azzurra, lunga fino ai piedi. Intorno ai capelli ha passato un nastro pure azzurro, che le dona molto. Marco le dà un’occhiata rapida, poi china lo sguardo.

– Grazie… signora. Buona sera… Grazie.

– Grazie a te della visita, Marco.

La signora esce dalla stanza per accompagnare Marco alla porta di casa. Guido le si mette al fianco e la mamma gli appoggia un braccio alle spalle, stringendolo a sé. Stanno sulla soglia a salutare Marco, che si volta alzando la mano in segno di commiato.

– Torna quando vuoi, Guido sarà contento, vero, Guido?

– Certo, mamma.

Guido, da sotto il braccio della donna, gli strizza l’occhio con fare complice e ride. Poi si volta e bacia la madre sulla guancia.

Marco si allontana senza più voltarsi, movendo a fatica le gambe enormi.