Raffaello and friends

| | |

Al Palazzo Ducale di Urbino la prima mostra celebrativa dei cinquecento anni dalla scomparsa del grande maestro

di Walter Chiereghin

 

Dal 3 ottobre scorso e fino al prossimo 19 gennaio è possibile visitare presso il Palazzo Ducale di Urbino la mostra “Raffaello e gli amici di Urbino”, curata da Barbara Agosti e Silvia Ginzburg, promossa e organizzata dalla Galleria Nazionale delle Marche, diretta da Peter Aufreiter, che agisce in questa occasione in rapporto di partenariato con la Galleria degli Uffizi di Firenze. La città natale del pittore inaugura in questo modo le celebrazioni che, nel 2020, ricorderanno il quinto centenario della sua morte, e lo fa esplorando un tema originale, quale quello delle relazioni intercorse tra Raffaello ed altri autori attivi nell’area urbinate a partire dagli anni della sua prima formazione, quelli cioè che accompagnarono il passaggio della sua arte negli anni di transizione dal XV al XVI secolo.

Parte dunque da qui, dalla città marchigiana ove signoreggiarono i Montefeltro e poi i Della Rovere, la troppo breve, luminosissima parabola di quel genio che ha diviso il mondo dell’arte in un “prima di lui” e un “dopo di lui”, capace di surclassare maestri, reinventando per esempio a poco più di vent’anni lo Sposalizio della vergine oggi a Brera, probabilmente coevo o di poco successivo (1504) della grande tavola omonima che aveva impegnato il Perugino. Nella bottega del Vannucci l’Urbinate era passato ancora adolescente, se dovessimo credere al Vasari inviatovi dal padre, il pittore Giovanni Santi. Ma lo Sposalizio è il punto finale della sua collaborazione col Perugino: le sue prime manifestazioni si ebbero a Urbino e le suggestioni che lì gli furono presentate come pure le relazioni che ivi stabilì costituiscono il punto di partenza della riflessione che la mostra di cui stiamo discorrendo intende focalizzare.

Urbino fu, a partire dall’assunzione del ducato da parte di Federico da Montefeltro, uno dei punti nevralgici dell’arte e della cultura del Rinascimento, con una corte ducale aperta a tanta parte della classe intellettuale dello straordinario periodo, da Piero della Francesca a Luciano Laurana, da Francesco di Giorgio Martini, ad Antonio del Pollaiolo. Nella cittadina marchigiana aveva trascorso anni fondamentali per la sua formazione Donato Bramante ed è ambientato nella sofisticata corte urbinate di Guidobaldo da Montefeltro Il libro del cortegiano di Baldassar Castiglione. Raffaello fu in condizione di valersi di un così sofisticato ambiente intellettuale come di un’incubatrice, muovendo i suoi primi passi anche come artista sotto la guida del padre, la cui posizione a corte consentì tra l’altro al figlioletto di frequentare il grande Palazzo Ducale, ove percorse tra le altre le stanze che oggi sono occupate, oltre mezzo millennio più tardi, dalla mostra che lo celebra una volta di più, e lo ripropone a contatto con altri pittori tra i quali due suoi conterranei, che divisero con lui almeno alcune fasi del loro percorso artistico. Si tratta di Timoteo Viti (1469 o 70 – 1523) e di Gerolamo Genga (1476 – 1551), di poco più anziani di Raffaello, come lui entrambi animati da un continuo aggiornamento delle scelte formali, con i quali egli stabilì un rapporto di amicizia e di collaborazione, al punto che chiamò Viti a lavorare nel cantiere della cappella Chigi di Santa Maria della Pace a Roma, circa nel 1510 – 11, contestualmente all’esecuzione dei lavori per la Stanza della Segnatura.

Con Viti, fin dall’inizio del percorso espositivo articolato in sei sale, l’accostamento si fa subito serrato, proponendo tra l’altro quanto negli anni del primo apprendistato di Raffaello poteva essergli additato nella stessa Urbino, a partire da Luca Signorelli, presente con le due facciate staccate di uno stendardo del 1494 raffiguranti una Crocefissione e una Pentecoste, in cui è chiaramente avvertibile il riflesso del magistero di Piero della Francesca. Anche gli altri antecedenti, a cominciare naturalmente dal Perugino, del quale sono presenti le tavole raffiguranti cinque scene della vita della Vergine dalla predella della pala realizzata per Santa Maria nuova a Fano, ma anche dal Pinturicchio, con due tempere su tavola di soggetto devozionale provenienti rispettivamente da San Severino Marche e da Siena. Fin da tale prima sala, si rende chiaro il disegno delle curatrici che propongono un’accurata esplorazione del contesto in cui, fin dagli anni di Urbino, pervennero accattivanti suggestioni a Raffaello – presente qui con una Santa Caterina d’Alessandria della Galleria Nazionale delle Marche e con alcuni studi di figura – come del resto al Viti, di cui vengono esibite, tra disegni e tavole, numerose opere situabili originalmente nella città natale e in parte provenienti ora da importanti prestiti (Brera, Bristol, Louvre, e ancora Vienna e Francoforte). La presenza di Timoteo Viti è inoltre pretesto per presentare alcune opere del suo maestro Francesco Francia, alla cui bottega bolognese il marchigiano s’era formato negli anni giovanili, e alla cui scuola, come pure al magistero del Perugino, rimase sostanzialmente sempre fedele.

Attraverso tali riflessioni e il rilievo dato a tale pluralità di dipinti e di personalità artistiche ponendo visivamente a confronto le loro opere, il carattere scientifico della mostra annoda ulteriori fili che aiutano a comporre l’ordito di quello straordinario tessuto che costituisce l’ambito culturale e iconografico in cui si svolse l’attività del giovanissimo Raffaello, come pure quelle dei suoi amici di Urbino. il rilievo dato a tale pluralità di dipinti e di personalità

A partire dalla seconda sala della mostra, in cui si affianca al protagonista in particolare Girolamo Genga, ci si dispone sul versante toscano, seguendo le tracce del giovane ma ormai riconosciuto maestro dapprima a Siena e subito dopo a Firenze, dove ebbe un intenso scambio con fra’ Bartolomeo e dove fu richiamato in particolare dalla fama che promanava dall’attività di Leonardo e di Michelangelo, impegnati nella duplice impresa – duplicemente infausta – della Battaglia di Anghiari e della Battaglia di Cascina, soggetti che avrebbero dovuto decorare a Palazzo Vecchio le pareti della sala del Maggior Consiglio (poi Salone dei Cinquecento).

Come, seguendo la visione del Vasari, osserva opportunamente la curatrice Silvia Ginzburg nel ricco catalogo della mostra «Nel procedere fin dalla giovinezza per scelte progressive a un ampliamento del ventaglio dei propri riferimenti, e dunque a sempre nuove combinazioni, Raffaello persegue una ricerca che pur nei continui balzi in avanti ha una coerenza impressionante, esemplare della possibilità di ricostruire per via stilistica una sequenza cronologica».

In misura minore e con minori sicurezze stilistiche, anche Girolamo Genga, impadronendosi dello stile “moderno” tra Siena e Firenze, grazie ai suoi rapporti con Fra’ Bartolomeo, con Domenico Beccafumi e soprattutto con lo stesso Raffaello, a proposito del quale la scheda relativa a una sua Madonna col Bambino e San Giovannino riportata in catalogo (p. 159) così si esprime: «la tavola sviluppa ulteriormente i modi della lezione di Raffaello […] Genga mostra qui di aver perso i tratti incisivi del disegno, quasi graffianti, che aveva ereditato come una cifra caratteristica da Signorelli […] Una nuova dolcezza, nella resa arrotondata delle forme anatomiche, un tratto più cordiale e ccostante nei lineamenti e nella resa degli affetti, una fusione cromatica più evoluta discendono chiaramente dalle opere raffaellesche ormai senza mediazioni di più arcaico retaggio».

Varcata da poco la soglia del Cinquecento, alcuni ritratti sono introdotti ancora una volta dal Perugino, presente qui con un piccolo Ritratto del monaco vallombrosiano Baldassarre di Antonio d’Angelo (Gallerie dell’Accademia di Firenze) e di una Santa Maria Maddalena, anch’essa proveniente da Firenze, da Palazzo Pitti, mentre di Raffaello vengono proposti alcuni ritratti in gran parte notissimi, a iniziare dal San Sebastiano, per approdare ai due ritratti muliebri detti La Muta (di casa a Palazzo Ducale fin dal 1927, da dove fu trafugata assieme alla Flagellazione e alla Madonna di Senigallia di Piero della Francesca nel 1975 e recuperata a Locarno l’anno successivo) e La Gravida, proveniente invece dagli Uffizi che esplicitamente richiamano entrambe la ritrattistica leonardesca. In parallelo con i ritratti, l’esposizione presenta una stupefacente serie di Madonne col Bambino (Madonna Colonna dallo Staatliche Museen zu Brlin, Madonna Conestabile, dall’Hermitage di San Pietroburgo, Madonna Aldobrandini – o Garvagh – proveniente dalla National Galllery di Londra) quest’ultimo capolavoro già afferente al periodo romano e probabilmente databile negli ultimi mesi del pontificato di Giulio II Della Rovere (quindi nel 1512).

L’itinerario proposto dalla mostra continua a seguire Raffaello – e, in particolare, Genga – fin dentro il secondo decennio del Cinquecento, che purtroppo sarà per l’Urbinate anche l’ultimo, per la sua troppo breve esperienza umana. Nell’ultima sala dell’esposizione, anzi, si indaga sul “Dopo Raffaello”, mediante opere ancora del Genga, di Giulio Romano e di Raffaellino del Colle, eredi diretti, gli ultimi due, nella conduzione e nella proprietà della bottega del Sanzio e delle opere complete o incompiute in essa contenute.

Un’esposizione di diciannove Raffaello è di per sé un evento, soprattutto se associata ad altri sessantacinque lavori di altri autori suoi coevi, ma è necessario dire che non per questo la mostra di Urbino è da iscriversi nel novero, purtroppo affollatissimo, degli “eventi” di carattere più scopertamente commerciale che, rifugiandosi di norma dietro un nome luccicante (o magari più d’uno, come avviene per il classico da… a…, accostamento spesso incongruo, ma di facile richiamo) non propongono sostanzialmente nulla di nuovo e lasciano nel visitatore una sensazione vaga e sfuggente, pronta a dileguarsi una volta esaurito il rito consumistico della fila, del biglietto, della visita guidata, magari anche dell’acquisto del catalogo o di altri ancor meno utili oggettini alla libreria del museo. La mostra realizzata a Palazzo Ducale, al contrario, si regge su una solida e coerente intelaiatura scientifica e riesce a trasportare il visitatore attraverso un percorso atto a mettere in evidenza la rete di collegamenti generazionali e di scambi in ambito culturale e figurativo che hanno consentito e accompagnato la transizione da un secolo a quello successivo, facendo di Urbino la rampa di lancio non soltanto per l’ascesa irresistibile di un singolo artista di genio, ma al contrario per l’affacciarsi di intere generazioni a una modalità nuova di fare arte.

 

Raffaello

Madonna Aldobrandini

circa 1512

olio su tavola

Londra, National Gallery