Maurensig e le ombre della storia

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di Gianni Cimador

 

 

In Teoria delle ombre Paolo Maurensig si addentra di nuovo nell’affascinante mondo degli scacchi, a ventidue anni da La variante di Lüneburg: come nel romanzo d’esordio, anche in questo caso gli scacchi sono la metafora di una partita con l’enigma dell’esistenza, nella quale ogni mossa, ma soprattutto l’ultima, risulta fatale.

Il mistero ancora irrisolto della morte di Alexandre Alekhine, il più grande scacchista sovietico, campione in carica per oltre diciott’anni, innesca una detection che, nella forma del romanzo nel romanzo basato su un manoscritto, vuole mettere a fuoco gli ultimi mesi del protagonista, trascorsi in un hotel a Estoril, nel Portogallo della dittatura salazariana, tra 1945 e 1946.

La suggestione della “teoria delle ombre”, che rinvia alla geometria descrittiva e nella quale vengono rappresentate anche le ombre prodotte dai solidi, definisce una situazione in cui la realtà e le apparenze, le ipotesi, assumono la stessa consistenza: come in un giallo metafisico, il tentativo di scoprire le cause si perde nella vertigine di una mise en abyme, in una molteplicità di stratificazioni e misteri, per cui la sensazione di irrealtà avvolge ogni cosa.

Proprio a Estoril, in una sorta di non luogo dove tutto sembra una messa in scena, Alekhine cerca un rifugio rispetto ai fantasmi del passato che tuttavia si ripresentano e lo accerchiano: alla fine del secondo conflitto mondiale, è considerato un collaborazionista dei nazisti per la sua amicizia con Goebbles e con Hans Frank, anche se, nella sua logica, ogni azione è giustificata dalla passione per gli scacchi, criterio esclusivo e totalizzante che va al di là di ogni senso morale e che sovverte e mette in crisi ogni racconto a senso unico della Storia, ogni retorica deformante e falsificante. Nel clima di caccia alle streghe del secondo dopoguerra, Alekhine diventa per il Portogallo un’occasione di ripulirsi la coscienza dalle simpatie filonaziste e per la Russia un traditore che va eliminato. Le contraddizioni della Storia si sommano a quelle dell’esistenza. A esse Alekhine contrappone una paradossale coerenza, dal momento che “ama le posizioni complicate” e “là dove per gli altri c’è il caos lui trova un ordine”: è un ideale che si raggiunge con il “gioioso sacrificio” di se stessi, dove non è possibile individuare con chiarezza dove finisca la tecnica e dove inizi l’arte. Ma il suo sostanziale immobilismo lo rende inadeguato e vittima rispetto alle dinamiche della storia.

Tornare a Estoril sul luogo del delitto e riannodare i fili che portarono alla morte di Alekhine, avvenuta per una presunta asfissia provocata dall’ingerimento di carne cruda, significa anche confrontarsi con la memoria e con l’oblio, con la Storia e le sue distorsioni: forse anche per questo il narratore non vuole insediarsi nella proustiana stanza 43 che era del protagonista, per il timore che “al confronto con la realtà, l’atmosfera che avevo immaginato nelle mie pagine sbiadisse del tutto”. Quanto più egli entra in contatto e si identifica con il suo “nume tutelare”, tanto più avverte una falsità e una artificiosità che lo respingono.

Il processo che viene inscenato per inchiodare Alekhine alle sue presunte responsabilità di filonazista e antisemita rappresenta il culmine dell’irrealtà, la chiusura del cerchio accuratamente preparata da forze indefinibili che agiscono dietro le quinte. La vicenda assume quindi le caratteristiche di un conflitto tragico tra la Necessità del Destino e la solitudine dell’individuo in un vicolo cieco e sottoposto ad attacchi che vengono da ogni parte (l’unico amico è paradossalmente un violinista ebreo): è quasi scontato richiamare la partita a scacchi con la morte del Settimo sigillo di Bergman, e l’atmosfera stessa dell’albergo fuori stagione posto di fronte all’Oceano sconfinato, la sospensione nel senso di attesa per qualcosa di indefinibile producono la sensazione che tutto sia una allucinazione.

Nello stesso tempo, nel confronto che viene proposto ad Alekhine con il più giovane ed ebreo Botvinnik per la conquista del titolo, oltre a essere suggerito il passaggio epocale dalla Russia zarista e aristocratica a quella sovietica, viene messo in scena un dramma storico, dal momento che gli scacchi per l’Unione Sovietica sono un sostitutivo simbolico della guerra: avere la supremazia significa ricordare costantemente al nemico di possedere una maggiore competenza bellica, una strategia più efficace. Anche l’antisemitismo diventa così una questione di stile e la lotta fra le diverse idee nel mondo degli scacchi si trasforma in una lotta contro Alekhine, su cui grava il sospetto del “complotto giudaico”. La paura del giudizio, per cui è meglio morire piuttosto che essere sconfitti, diventa un momento di vertigine ontologica, di caduta delle illusioni, fa riemergere i traumi infantili e la necessità della persuasione, nel senso michelstaedteriano. La scacchiera è un magnete irresistibile, un criterio di orientamento che si fonda sulla capacità di astrazione e di previsione, su una presa di distanza che evita il dolore della prossimità (“Dobbiamo allora affidarci al senso generale della posizione, e all’istinto. Quando, invece, da molteplici le possibili risposte si riducono, allora il calcolo diventa più facile”) ma può essere anche una condanna: negli scacchi si riproduce la struttura del mondo, dove ogni spostamento modifica continuamente l’ordine esistente, una forza oscura viene in superficie. Questa ambiguità è la cifra stessa del romanzo e lo rende un giallo anomalo proprio perché la detection, e l’autobiografia che insieme a questa si delinea, non si risolve in una definizione lineare dei rapporti tra causa ed effetto: è un’ambiguità che investe la dimensione storica così come quella esistenziale, e che appunto si può ricondurre ai due concetti di “persuasione” e di “retorica”, nei quali rientra anche la contrapposizione tra le due visioni del gioco degli scacchi legate al mondo ariano e a quello ebraico, una polarità che lacera lo stesso mondo sovietico.

Non essendo più possibile dare un senso alle proprie azioni, solo la morte scioglie le contraddizioni, ovvero il ritorno, evocato nel finale, al grembo della Grande Madre Russia, nella “molle infinità russa”, come direbbe Bettiza, un continente spirituale magmatico e infinito come è l’interiorità di Alekhine che, in questa deriva caratterizzata dall’indistinguibilità di Bene e Male, finisce per trovare quindi la sua essenza più autentica.

 

 

Copertina:

Paolo Maurensig

Teoria delle ombre

Adelphi, 2015

  1. 200, euro 18,00