COLPEVOLE O INNOCENTE? LA PAROLA AI GIURATI

| | |

Stefano Crisafulli

 

Dodici uomini, riuniti in una stanza chiusa del tribunale, devono decidere all’unanimità della colpevolezza o innocenza di un presunto parricida. All’inizio quasi tutti lo ritengono colpevole, ma, grazie ai dubbi di un unico giurato, le accuse verranno smontate a poco a poco e le certezze cominceranno a vacillare. Questa è la storia, in poche righe, di uno dei più bei film processuali americani di sempre: La parola ai giurati, di Sidney Lumet, uscito nel 1957. Protagonista (e produttore della pellicola in b/n) un Henry Fonda in ottima forma, che vestirà i panni del giurato dubbioso, ma notevoli le prove d’attore di tutti gli altri personaggi, a partire da Lee J. Cobb, l’irriducibile colpevolista. Trovandosi in una stanza chiusa, con la grave responsabilità di condannare un uomo, magari innocente, alla sedia elettrica, i dodici membri della giuria sono costretti ad interagire e a portare avanti le loro ragioni, in un crescendo magistrale di tensione. Come da tradizione, negli Stati Uniti la giuria è composta da persone che provengono da diverse classi sociali, fanno i mestieri più disparati e, naturalmente, non si conoscono. Questa serie di ingredienti offre a ciascuno la possibilità di mostrare la propria personalità per mezzo di giudizi, atteggiamenti e caratteristiche non verbali, come il tono della voce o la gestualità.

In effetti, questo film, grazie anche al lavoro degli attori, è un piccolo breviario di pragmatica della comunicazione umana. Un esempio clamoroso è dato dalla prossemica, ovvero dal modo di occupare gli spazi dei personaggi all’interno della stanza. C’è una scena, in particolare, da descrivere: uno degli accusatori più feroci e razzisti perde il controllo e inizia a straparlare, utilizzando argomenti offensivi e discriminatori contro l’imputato, a quel punto, a uno a uno gli altri giurati lasciano il tavolo e si alzano in piedi, senza dire una parola, voltandogli le spalle. Il personaggio di Henry Fonda è piuttosto attento a questo aspetto e, infatti, lo vediamo spesso in disparte, che guarda fuori dalla finestra, mentre gli altri cercano di conoscersi un po’ di più. Anche i ruoli che ognuno di loro si assume potrebbero essere analizzati psicologicamente: c’è chi si prende la briga di mettere ordine e di organizzare la riunione e chi se ne infischia e non vede l’ora di andarsene per vedere la partita. E poi ci sono le alleanze tra coloro che sono convinti di aver già preso la decisione giusta.

Ma non è soltanto questo a rendere il film (che in originale si intitola Twelve angry men) interessante. Il fatto di chiudere dodici persone in una stanza rende la situazione più claustrofobica, quindi aiuta ad aumentare la tensione, ma è anche un modo per stimolare l’immaginazione. Se, infatti, il regista non si fosse limitato al racconto del presunto omicidio, ma, in un eccesso didascalico, lo avesse mostrato con dei flashback, probabilmente la tensione sarebbe stata minore. Anche perché ognuno di noi può, ancora oggi, identificarsi con qualcuno dei dodici giurati e chiedersi: cosa avrei deciso, io, al suo posto?