SPECIALE SG Gli “Appunti inutili”: un piccolo scrigno senza fondo

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di Roberto Pagan

Mi perdonerà l’amabile lettore se, in questo tentativo di rievocare Giotti uomo e poeta, dovrò indugiare forse più del lecito anche su ricordi personali. Mi conforta, ad ogni modo, l’idea che la mia testimonianza – data l’enormità del tempo trascorso – può essere già per se stessa un pezzo di storia: perché sono pochi ormai i sopravvissuti che abbiano potuto incontrare Giotti e frequentarlo in quei leggendari martedì di Anita Pittoni. Tutto sta, però, a disciplinare i ricordi, questi brevi flash isolati e frammentari, sempre più labili forse nella loro consistenza, e ribelli a farsi imprigionare in un quadro coerente. La storia è sempre, alla fin fine, una questione di date.

C’è stato comunque un episodio recente che mi ha risospinto quasi di forza a ricuperare quel poco che sapevo sulla figura del nostro poeta e a rileggerlo con occhio più attento. Come conseguenza di un saggio fortunato di Anna De Simone, studiosa benemerita della letteratura nostra, giuliana e friulana, (Leopardi a Trieste attraverso Giotti), c’è stato, nel giugno dell’anno scorso, un simpatico rovesciamento dei termini: Virgilio Giotti da Trieste a Recanati, come se Giotti fosse stato invitato, ospite d’onore, in casa Leopardi. Così, nella bella sala del Centro Nazionale di Studi leopardiani, di fronte a un pubblico vivace e partecipe – c’era anche un abile pianista a curare la colonna sonora – Anna De Simone ha ripresentato il suo libro e, poiché occorreva un lettore triestino per i testi giottiani, chi scrive questa nota ha avuto l’inopinato ruolo di dar voce al poeta. Onore e onere naturalmente. Non ho avuto modo di chiedere poi un parere sulla mia esibizione all’unica persona che avrebbe potuto giudicare con cognizione di causa: la signora Vittorina, la “picia Rina” di tante poesie di Giotti, presente in sala con la cognata, persone che io incontravo, con commozione, per la prima volta in vita mia. Ora so che la signora, con il fratello Fulvio Quarantotto, è la custode del piccolo museo giottiano di via degli Stella a Trieste. Dove funziona anche un “Centro Studi Giottiani”.

Era stata, come dicevo, un’occasione per soffermarmi soprattutto sull’ultimo Giotti, in particolare sugli Appunti inutili, straordinario libretto, struggente quanto più si sforza di essere asciutto nelle forme, intimamente legato, certo, alla tragedia dei figli caduti in Russia. Io l’avevo preso in mano chissà quante volte, a cominciare dal ’59, quando era stato pubblicato per la prima volta dalla Pittoni nella collana dello Zibaldone, Ma solo ora mi sono soffermato sulle date e mi sono accorto che l’estensione temporale dello scarno quaderno in realtà abbraccia un periodo di ben nove anni: corrispondente più o meno alle due ultime sezioni di Colori (V, Sera, 1943-48 e VI, Versi, 1948-55). Più in dettaglio: i primi appunti sono della primavera del ‘46 (1 febbraio e 22 marzo) e sono intesi esclusivamente a registrare la notizia della morte di Paolo in Russia (di Franco ancora non si sapeva nulla) confermata da due lettere, sollecite e commoventi, e debitamente sgrammaticate, di tale Ersilio Zatta, un commilitone coinvolto con Paolo nella terribile rotta del Don: E così è finito – scrive Giotti – questo mio tanto caro figliolo, all’età di 28 anni, stritolato fra le sue due patrie. Era fuggito dalla patria italiana, che lo aveva tartassato dai 18 anni in là, e la patria russa materna lo respinse, non seppe che dargli la terra per la sepoltura. Strazianti parole, tanto più nello sforzo evidente di contenere l’angoscia. Poi Giotti riprende in mano il quaderno solo a fine luglio ’47, per proseguire la stesura dei suoi appunti quasi quotidianamente nel successivo agosto e fino al 5 settembre. Dopo una interruzione, le note ricompaiono alla fine dello stesso settembre per proseguire nel successivo ottobre ’47; con qualche sporadica aggiunta in giorni isolati (20 XI, 5 XII) dello stesso anno. Leggiamo poi una paginetta appena il 24 giugno ’48, e, l’anno dopo, un’altra, il 3 luglio ’49. Infine – dopo ben quattro anni – un isolato appunto il 30 agosto ’53 e una piccola conclusione nel novembre ’55. I due ultimi brani, nella misura ormai di raccontini – simili nella tonalità sommessa – riguardano gli uccelli, visti dal terrazzo o tenuti in gabbia. Sono due piccole gemme liriche: superiori, io credo – nella loro elementarità – alle stesse poesie coeve. (Ma su questo mi riprometto di tornare).

Dunque gli appunti mostrano un andamento saltuario, sporadico, eppure unitario per la tensione emotiva, ma anche per una ricercatezza stilistica assai ben calibrata benché, per così dire, dissimulata. In realtà, sembra incredibile quante cose contengano queste scarne paginette, quanti temi, quante riflessioni profonde, sulla vita e la morte, le stagioni della natura e degli uomini, la giovinezza e la vecchiaia, le persone, i bambini e i loro giochi, le amicizie e gli screzi (Saba!), la poesia, l’arte, la civiltà e poi la guerra, le distruzioni, il sonno della ragione… Tutto questo culmina di fatto nel ’55.

Ma il libro lo leggeremo appena nel ’59: e io non ero più a Trieste, avevo iniziato la mia carriera d’insegnante, in giro per il Veneto, da “supplente annuale” (così si diceva) prima, “incaricato” dopo, ad Agordo, a Pordenone, a Udine. Ero ancora a Trieste nel ’57: e quindi presente ai funerali, prima di Saba e, giusto un mese dopo, di Giotti. In definitiva i miei ricordi più vivi mi riportano agli anni ’55-’57. Sono quelli, per me, gli anni della Pittoni, dei “martedì delle seggiole basse”, come li ho definiti in una poesia. Il lungo tavolone di legno e le misteriose, certo scomode, seggioline: solo recentemente qualcuno (forse Grisancich) mi ha illuminato spiegandomi che seggiole e tavolone erano quelli delle lavoranti: quella era la misura giusta per appoggiarvi arazzi e tappeti da tessere e ricamare, quando l’atelier di Anita era al massimo dell’attività, ben prima della crisi del ’29, e allora le ordinazioni venivano da ogni parte, non solo dall’Italia ma anche dall’estero. Poi, dopo la guerra, quando Anita aveva stretto la sua relazione con Stuparich, l’atelier si era convertito in salotto letterario: in pratica la continuazione più familiare del Caffé Garibaldi, dove per tanti anni si erano ritrovati gli intellettuali triestini…

Ma io e i pochi giovani che erano ammessi al cenacolo della Pittoni, che cosa potevamo sapere di quel glorioso passato e di quei patriarchi ormai attempati, Stuparich e Voghera e Rovan e Giotti appunto, che sedeva sempre là in fondo, sotto alla finestra che dava su Piazza della Borsa. Da lì si intravvedeva di sguincio, tirando il collo, Leopoldo imperatore in piedi sulla colonna con lo scettro in una mano e il mappamondo nell’altra. Giotti sempre là lo vedevo, piccolo e bianco, col viso triste. Ma aveva una voce fonda e una bella pronuncia toscana. In realtà parlava pochissimo, si limitava ad ascoltare gli altri. Tra di loro si intendevano, con poche battute, noi giovani coglievamo qualche allusione, ma spesso non ne capivamo il senso. Studentelli di quella volta, in soggezione di fronte alle persone importanti. Solo la Pittoni, sempre energica e spigliata padrona di casa, avrebbe potuto informarci, e lo faceva ogni tanto, ma a seconda dell’umore. Per il resto, noi si apriva la bocca solo se interrogati. Mi sforzo ora di ricordare quante volte Giotti mi rivolse la parola, mi disse o mi chiese qualcosa di sua iniziativa. Una volta gli avevo lasciato un fascicoletto delle mie poesie (in italiano queste, ma già ne avevo scritte delle altre in dialetto triestino, non certo nello stile, ma sull’esempio autorevole di Giotti). Il giudizio fu assolutamente lapidario: “Troppe parole” e, bontà sua, me ne salvò una di quattro versi: “Questa non è male”. La sua accigliata sobrietà, la sua parsimonia, anche di gesti e di parole. Nella sua vita, tutto doveva essere essenziale: povero ma decoroso. In ordine, “pulito” (come lo intende il dialetto triestino, cioè fatto bene, con cura). Un’altra volta (ma forse era la stessa delle poesie) mi chiese dei miei studi. Dissi che frequentavo l’università, volevo laurearmi in lettere. E allora mi guardò e disse, come accorato, e non sapevo se era serio o voleva scherzare: “Ma lasci stare, lasci stare la letteratura… faccia piuttosto – e qui una pausa, sembrò cercare la parola – faccia piuttosto…balistica”. Sorrisi, credo, per darmi un contegno. Ma rimasi certo disorientato.

Oggi forse, sì, posso capire: i figli morti in guerra – ecco la “balistica”, l’amaro sarcasmo. Non ce l’aveva con me. Ce l’aveva forse con se stesso che aveva tirato su due figli letteratissimi, due perfetti umanisti, uno e l’altro, benché diversi di carattere. Paradossalmente, in Russia, mentre stavano lì sul Don, quasi a tu per tu coi carri armati sovietici, nelle loro lettere meravigliose, piene di sensibilità e di maturità intellettuale, soprattutto di questo parlavano: di libri, di arte, di letteratura, italiana e straniera, perché, oltre al russo, anche altre lingue sapevano, il tedesco e forse un po’ di francese… Questo era dunque il Giotti che io avevo conosciuto: ma nessuno poteva immaginare quanto ormai fosse vicino al termine della sua esistenza, a quella morte che, proprio nei suoi Appunti, tanto aveva invocato come una liberazione. Solo con se stesso, incapace, per pudore e per orgoglio, di chiedere soccorso, esacerbato, distrutto dall’angoscia e quasi eroico nella sua condizione, coi figli morti, i congiunti ancora da proteggere, la moglie Nina ormai “dissennata” come lui diceva toscaneggiando, senza mezzi finanziari, colpito proprio nel cuore dei suoi sentimenti, nella sua religione della casa e della famiglia… Ma io, allora, quanto potevo comprendere, o solo intuire, in quegli anni tra il’55 e il ’57?

In realtà, tutto c’era già nei suoi Appunti inutili: che nessuno ancora aveva letti. Quanto sono “utili” invece, necessari oggi per avvicinare Giotti e la sua poesia. Anzi sono essi stessi “poeticissimi” – come avrebbe detto Leopardi, suo infelicissimo fratello maggiore. E su questo punto vorremmo ancora un po’ soffermarci.

Giotti, per quel che si può intendere, quando vuol definire il senso dei suoi appunti, che dovrebbero offrirgli il conforto d’una conversazione con se stesso su argomenti che non possono essere materia di conversazione con altri (p.18 nell’edizione dello Zibaldone), insiste sul bisogno di verità come loro cifra caratteristica, che distinguerebbe quindi queste succinte disadorne paginette di prosa dalla poesia: persuaso comunque che la scrittura non è adatta a fermare la verità… Perché alla fine rischiamo di essere sempre insinceri anche con noi stessi. Semmai – conclude – il linguaggio va bene per la poesia, perché la poesia non vuole esprimere la verità, ma è una costruzione ideale, che ha una verità sua, la quale prende forma con la parola che diventa tutt’una con essa (pp. 33-34). In realtà, che lui lo ammetta o no, già quelle paginette rivolte al suo intimo conforto sono spesso poesia, proprio per la sensibilità stessa di Giotti così naturaliter poetica.

Leggiamo ad esempio le cinque righe di p. 55 (31.VIII. 47): Rapinate da un improvviso soffio di vento diaccio, quattro foglie gialle, le prime, volano via da un alberetto. Così per me è cominciato l’autunno quest’anno. Tutto qui. Ma quale grazia, quale intensità: il brivido te lo senti dentro. Poesia in prosa, perché non ci sono i versi, né rime né assonanze. Né quella particolare cantabilità. Ma questo, Giotti non lo accettava bene, troppo legato alla tradizione. Prendiamo ancora l’attacco della p. 57, magari scorciando di due righe: Afrodite, fai che per una mezza giornata la mia Nina ridiventi giovane, con le lunghe trecce nere giù per le spalle, con gli occhi come i fiori del bosco che si aprono al mattino. Quale delicata elegia. Come sono vivi il dolore e l’amore, la tenerezza e il rimpianto. O come è sofferto questo epicedio, a p. 63, che coinvolge anche lui, il poeta, direttamente: Miei amici… e voialtri miei ragazzi, e tu mia vecchia madre, non passerà molto che verrò a battere alle vostre porte, per stare con voi, ombra fra le ombre.

Se questo non è poesia, cos’altro è poesia? Ma qualche volta lo stesso Giotti è colto da sospetto. Nel quasi-raccontino sui passeri del suo terrazzo (pp. 85-87), isoliamo qualche passaggio: …su quei due metri quadrati di deserto, la Nina sparge le briciole per i passeri. Due passeri, sempre gli stessi due… il maschio, grossotto, con le due macchione nere una per parte del becco. Poi cominciò a venirci anche la femminetta, fine, tutta delicatamente bigia… Ed ecco che il maschio, raccolta una briciola, la porse alla femmina. E i loro becchi si unirono, e uniti rimasero per un certo tempo…Mangiavano insieme. Mangiavano e si baciavano. La pagina si conclude con l’osservazione di Giotti che, di fronte a quella scenetta, un poeta dei tempi arcadici non avrebbe mancato di fare una canzonettina o un madrigaletto. Ma io, di questi tempi, come potrei da tutto ciò cavare dei versi, mia graziosa C.? Eppure, qualcosa che si assomiglia a una poesia, ecco, ho fatto. Quindi, se capiamo bene, a Giotti qui mancavano solo i versi perché quella “cosa” che aveva fatto fosse davvero una poesia. Ma eccoci serviti: nell’attacco di p. 89 (è l’ultimo degli Appunti) – ancora un paesaggio d’autunno, la stagione più consona all’animo di Giotti – troviamo addirittura tre endecasillabi, metricamente inappuntabili benché dissimulati. Ma noi spostiamo qualche riga o qualche sillaba e li mettiamo in luce: …quest’anno, al declinare dell’autunno… [e il vento] caccia e fa mulinare per i viali / e gli spiazzi le foglie rugginose. Un’altra volta infine (p. 88) lo stesso Giotti coglie a volo una battuta in dialetto sulla bocca di due ragazzi intenti a giocare a pallone: “No’ vardar la putela che passa: tira adesso. Te la vedarò stassera” E ammette divertito: È poesia, e anzi rincara la dose: È un frammento di poesia antica classica.

Altre volte certo la poesia, in queste pagine, rimane solo in potenza, è la situazione che è poetica in sé, uno spunto che può incarnarsi in poesia e farsi, certo, anche verso. Ci sono soprattutto due casi, che sono già stati studiati da altri, in cui possiamo seguire la corrispondenza di alcuni pensieri degli Appunti con altrettante poesie di Colori. L’uno è quello di una poesia famosa (non per niente figura sul frontespizio dell’edizione einaudiana curata da Anna Modena): Putela che dormi (ivi, p. 281). Non riportiamo i due testi a confronto per ragioni di spazio, ma ci affidiamo al lettore. In questo caso possiamo riconoscere che il brano in prosa (p. 65) degli Appunti, più analiticamente descrittivo, è stato davvero superato e ha acquistato un’anima profonda nella sua trasfigurazione in versi:…Col viseto de angelo, / stanca, te dormi, sì, / piceta? O come tanti / te son morta anca ti?

L’altro caso che abbiamo in mente è la drammatica riflessione sul desiderio di morte e l’impossibilità di un suicidio: Giotti si sente ancora responsabile dei propri congiunti: la moglie, la figlia, la nipotina. Nella paginetta degli Appunti (cfr. p. 18) tutto è detto in maniera assolutamente esplicita pur nella consueta sobrietà di linguaggio. Il ragionamento è ripreso in Colori nella poesia A la sorte (p. 276): dove però, nella tornitura aggraziata delle tre strofette di settenari, diventa altra cosa, il dramma si addolcisce, e tutto rischia di sfumare in una sorta di arietta metastasiana: Insègnime ti, sorte, / come che go de far / a morir e restar / l’istesso qua nel mondo. Anche se il tema ricompare nella seguente La porta serada (ivi p. 277) e si fa più cupo e misterioso. In nota il commento parla di un “dittico del destino”. Ma, a questo punto, si potrebbe parlare di “trittico”, se aggiungessimo anche, subito dopo, la più sfuggente (ma, a nostro parere più efficace) Con Rina: dove il motivo resta implicito, procede solo per allusioni: in un’atmosfera di inquietudine, velata da una ombra bianca de luna, il protagonista (evidentemente il poeta stesso) sente la voce della nipotina che col suo richiamo lo salva forse da un gesto estremo in un luogo petroso e maleodorante (tra grèbani e odor / de bestia morta) dove già lui avverte l’odor tristo di sé, come già suicida, cadavere decomposto…

Ma quante cose ancora troviamo in questo piccolo scrigno senza fondo che sono gli Appunti inutili. Ecco, alla p.74, un’altra poesia, almeno in nuce se non già definita, dove la vita è paragonata a una tela intessuta con fatica, facendo e rifacendo: e poi viene la malattia, e la vecchiaia, e noi, quella tela, ce la ritroviamo tra le mani sfilacciata e lacera. O, a p. 80, il paragone tra sé e il ragno: qui anche il linguaggio è elaboratissimo, ma forse la poesia ancora non c’è. E come dimenticare il passo (pp. 78/79) della Nina ancor giovane che si è lasciata cadere nella minestra un lungo capello castano, e di quello sottile e grigio che si è ritrovato molto più tardi nella stessa minestra? Qui è la situazione in sé che è piena di pathos. Chissà se è già poesia? Ma lo è, quasi certamente, a conclusione della scena (p. 84) che mostra ancora la Nina intenta a confortare l’uccelletto caduto – Sono una madre. Tu lo senti, non è vero? – il commento dell’infelice, e affascinato, poeta: O dissennatissima Nina! E come la dissennatezza s’avvicina alla poesia!

E infine, per concludere, più che una poesia, a noi sembra un poema epico la pagina 21: un poema che si allarga a dismisura come una piramide rovesciata, partendo dal luogo più basso e più squallido – un orinatoio – per abbracciare poi la storia intera e il cosmo infinito: Per lo spiraglio di un orinatoio, fronde di un albero da giardino… grandi foglie a cuore e grappoli di bacche verdi; e dietro, i timpani di pietra… disegnati bene, precisi. Il lavoro millenario dell’uomo, la civiltà, l’arte, la bellezza. Poi c’è la guerra, la violenza, la distruzione… E questo mi pare sia tutto quanto si possa pensare, dire, credere. Il resto sono particolari. Abbiamo estrapolato solo qualche frase, Ma, davvero, occorre dire di più?