Il racconto di un palmarès alternativo

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di Alan Viezzoli

 

Dopo un’edizione saltata, nel 2020, ma pur sempre virtualmente realizzata, tanto che conta ufficialmente come settantatreesima, e un’edizione svoltasi a luglio del 2021, piena di mascherine, tamponi giornalieri e green pass, la 75ª edizione del festival di Cannes si è svolta di nuovo in maggio, dal 17 al 28, senza più obblighi di alcun tipo, neanche di mascherina – che era solo (cito) «fortemente consigliata».

Dal momento che personalmente ho trovato l’edizione di quest’anno molto soddisfacente e ricca di buoni film che per lo più non sono finiti nel discutibile palmarès stilato dalla giuria presieduta dall’attore francese Vincent Lindon, ho deciso per una volta di staccarmi dai premi ufficiali per raccontare piuttosto quelli che sono stati i miei film del cuore.

Non posso non iniziare da Nostalgia di Mario Martone. Felice, interpretato magistralmente da Pierfrancesco Favino, torna al rione Sanità dopo più di quarant’anni passati in Medio Oriente, intenzionato a restare per risolvere vecchie questioni. Tratto dall’omonimo romanzo di Ermanno Rea, il film prosegue il lungo percorso di Martone all’interno della sua città e gioca con la filmografia dello stesso regista: l’attore che ne Il sindaco del rione Sanità faceva il “sindaco”, qui interpreta il prete dello stesso quartiere, quasi due facce di una stessa medaglia.

Degno di nota è anche R.M.N. del regista rumeno Cristian Mungiu, film ambientato in un paesino al confine con l’Ungheria dove, per sopperire alla mancanza di manodopera, il pastificio locale assume tre operai dello Sri Lanka. La presenza dei tre lavoratori stranieri acuirà il razzismo del villaggio, con tragiche conseguenze. Perfettamente inserito nel filone della “nuova onda” rumena sviluppatasi negli ultimi anni, R.M.N. fotografa perfettamente una realtà riscontrabile in ogni comunità e fa riflettere sui concetti di immigrazione e di appartenenza a un territorio, fino a chiedersi chi sia davvero un autoctono.

Spiace per l’esclusione dal palmarès di Les Amandiers diretto da Valeria Bruni Tedeschi. La storia, parzialmente autobiografica, di un gruppo di ragazzi che negli Anni ’80 riescono ad essere ammessi alla prestigiosa scuola di recitazione di Patrice Chéreau a Nanterre è fresca e coinvolgente. Un film corale in cui si respira davvero la voglia di quei ragazzi di eccellere – una voglia talmente universale da essere tranquillamente applicabile anche oggi.

Sottostimato dalla giuria, che gli ha assegnato solo il “Premio della giuria”, ex æquo con il fastidioso film animalista EO di Jerzy Skolimowski, è Le otto montagne diretto dai registi belgi Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch ma totalmente parlato in italiano perché interpretato da Alessandro Borghi, Luca Marinelli e Filippo Timi. Tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti, è la storia di due amici nel contorno delle Alpi piemontesi. Una dimostrazione toccante di come l’amicizia superi il tempo e le distanze e di quanto sia importante trovare la propria strada nella vita.

Tori et Lokita dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne ha ottenuto un inedito “Premio del 75° anniversario”, che sembra quasi inventato pur di dare un premio al film, quando in realtà sarebbe stato meglio assegnargli uno dei premi tradizionali. La storia di un bambino e un’adolescente scappati dall’Africa e rifugiatisi in Belgio dove cercano di sbarcare il lunario è filmata in modo asciutto e funzionale dai Dardenne che si dimostrano ancora una volta capaci di fotografare le tragedie del quotidiano con un particolare sguardo poetico.

Miglior sorte è toccata a Boy from Heaven di Tarik Saleh che ha vinto il “Prix du scénario” per la miglior sceneggiatura. Ambientato al Cairo, il film racconta le trame segrete che i servizi segreti mettono in atto affinché, alla morte del Grande Imam, venga eletto un successore più “malleabile”. Un thriller con echi de Il nome della rosa, molto ben condotto ed estremamente contemporaneo.