Il ritorno di Rigoletto

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L’opera di Verdi in un’altra edizione si ripropone al pubblico nel teatro lirico di Trieste intitolata al Maestro di Roncole di Busseto

di Luigi Cataldi

 

«Le roi s’amuse è il più grande soggetto e forse il più gran dramma dei tempi moderni. Tribolet è creazione degna di Shakespeare!!», scrive l’8 maggio 1850 un Verdi entusiasta a Francesco Maria Piave, incaricato di ricavare dal testo di Victor Hugo del 1832 il libretto per l’opera. Un entusiasmo che Luigi Martello, censore imperiale di Venezia, non condivise quando lesse la bozza de La maledizione predisposta dal librettista: un re immorale e libertino, una corte di nobili corrotti, un buffone gobbo e rancoroso come protagonista, sicari che offrono per la strada i loro servigi, spose e vergini rapite e violate. Materia «di una ributtante immoralità», sentenziò. Seguirono laboriose trattative per evitare che i sovrani e la nobiltà degli Stati restaurati dopo le fiamme del 1848 si sentissero presi di mira. Così Francesco I, re di Francia, divenne un imprecisato Duca di Mantova e si ricavò il titolo del dramma dal nome, anch’esso mutato, del protagonista, Rigoletto, il quale, però, conservò intatta la sua gobba e il suo rancore. Così l’opera andò in scena alla Fenice di Venezia l’11 marzo 1851: un gran successo. Fu la prima della trilogia popolare a cui seguirono, nel 1853, Trovatore e Traviata.

Un’opera sperimentale e matura al tempo stesso. Come in Don Giovanni, lo spazio (fisico e ideale) è già nella musica. All’aprirsi del sipario un gruppo di archi è sulla scena, una banda dietro di essa, mentre l’orchestra, dalla buca, dà sostanza al carattere dei personaggi, la voce dei quali, poi, si muove (qui e in molte altre occasioni) da punti diversi, per altezza o posizione, sulla scena o fuori scena. Insomma la musica disegna lo spazio, il quale è percepito dallo spettatore con gli occhi e con le orecchie al tempo stesso.

Fuor dell’ordinario, tanto da disorientare i primi critici, abituati a una più netta e convenzionale divisione fra personaggi abbietti e immacolati, è anche la distribuzione dei ruoli. Rigoletto per primo, sordido buffone, pronto alla derisione degli sventurati come lui e al rancore, vile consigliere di frode, ma anche tenero padre addolorato. Per lui il baritono acquista uno spessore drammatico inconsueto (dall’energico declamato al tenero cantabile), che necessita di raffinate doti d’attore: è il cosiddetto “baritono verdiano”. Poi il Duca, non più virtuoso ed eroico tenore, tipico del melodramma romantico, ma libertino e misogino, caratterizzato da un timbro spesso leggero e acuto. Infine Gilda, in divenire sia vocalmente (da soprano leggero a pienamente lirico) che caratterialmente (da ingenua sognatrice a donna consapevole di sé e del mondo).

Un disperato grido di accusa contro un potere irresponsabile e corrotto è la storia di Rigoletto. Una schiera di miserabili cortigiani rapisce per burla la figlia di Rigoletto, la consegna al proprio sovrano libertino, che già se ne era invaghito e che la violenta. Il buffone, per vendetta, commissiona ad un sicario l’omicidio del Duca, ma sua figlia Gilda, di quest’ultimo innamorata nonostante la violenza subita, si offre in sacrificio al posto dell’amato.

Un mondo «fuori dai cardini», come avrebbe detto Amleto, è la Mantova del Duca, ma qui non c’è un folle che ne comprenda l’orrore, né speranza di redenzione. Ottusità morale e buio esistenziale affliggono i cortigiani (ed anche i popolani come Sparafucile e Maddalena) e il loro Duca. La sua canzonaccia misogina (La donna è mobile) è il suo emblema e risuona alla fine dell’opera per suggellare il suo trionfo, squarciando il velo delle illusorie speranze di vendetta di Rigoletto, anch’egli, in ciò, moralmente, ancor più che fisicamente, deforme.

La sola capace di sottrarsi al degrado universale è Gilda, che sa opporre il perdono alla vendetta, il pianto alla derisione, la propria fragilità alla violenza della società. Il suo sacrificio non è quello di un’infatuata e ingenua eroina romantica. Sa che la vendetta del padre ricadrebbe o sul padre stesso o sul Duca e sceglie di dare la propria vita in cambio di quella di chi neppure potrebbe comprendere un così grande sacrificio. È un rifiuto di quel mondo oppressivo e delle sue leggi.

A Trieste Rigoletto è presenza fortunatamente ricorrente (del 2016 il precedente allestimento). L’attuale messa in scena (6-14 maggio), secondo il sovrintendente Giuliano Polo, ha contribuito, dopo la pandemia, a riavvicinare al teatro il pubblico (e fra loro gli oltre 1200 giovani che hanno assistito alle rappresentazioni), ed ha avuto un discreto successo (circa 800 presenze a recita).

Éric Chevalier, che dello spettacolo firma regia e scene, e che si è avvalso dei sobri ed eleganti costumi di Giada Masi, per «rendere leggibile» anche ai neofiti l’opera, ha mantenuto l’ambientazione originale. Una struttura mobile costituita da una doppia scala con due terrazze in alto e un piano in basso, a seconda della posizione e delle immagini di Mantova proiettate sullo sfondo, si fa palazzo del Duca, casa di Gilda e spelonca di Sparafucile. Il lavoro sui personaggi è efficace per Rigoletto, agitato da passioni diversissime (servilismo, cupo rancore, amor paterno) senza divenire caricaturale e per Sparafucile e Maddalena. Di Gilda si sottolinea l’ingenuità (ne è simbolo insistito la sua bambola) a discapito della sua conquistata consapevolezza.

Che la regia sia sobria e lasci spazio alla musica (Verdi ne sarebbe stato lieto) è, d’altro canto, un atto generoso a favore della direttrice dell’orchestra, Valentina Peleggi, giovane, di formazione italiana (Scuola di musica di Fiesole, Accademia di Santa Cecilia, Accademia Chigiana), ma già affermatissima in campo internazionale (direttore stabile dell’orchestra sinfonica di Richmond negli USA, direttore ospite del Theatro de Opera São Pedro in Brasile). L’orchestra del Verdi, sempre a suo agio col repertorio ottocentesco, bene integrata dal coro maschile preparato da Paolo Longo, è stata da lei guidata con precisione e rigore. La sua direzione ha messo in risalto i toni cupi dell’impasto orchestrale, che evocano il buio esistenziale della claustrofobica Mantova del Duca, la violenza delle voci maschili (nei cori soprattutto) o la loro suadente illusorietà (nel duetto Rigoletto-Sparafucile). Felice l’intesa coi cantanti, in particolare l’attenzione per l’evoluzione vocale di Gilda e per i diversi moti del contraddittorio animo di Rigoletto.

E i cantanti sono parsi in sintonia con l’orchestra. Devid Cecconi, a battesimo in questo ruolo nel 2006 proprio a Trieste, pur evitando i toni estremi, esprime con spontaneità le contrastanti passioni dell’animo di Rigoletto. La sua voce è solida, la recitazione naturale. Ruth Iniesta è una Gilda appassionata, sia da ingenua sognatrice, sia da donna consapevole del male del mondo. È dialogica nei numeri d’insieme, convincente nella recitazione. La tecnica sicura e l’intonazione perfetta le consentono di affrontare le parti virtuosistiche con naturalezza. Antonio Poli è un Duca brillante e avulso dal mondo che pur gli somiglia così tanto. Disinvolto nella recitazione e senza eccessi nelle arie. Sicuro è il suo fraseggio, la sua voce è calda nel registro centrale, cristallina in quello acuto. Abramo Rosalen (Sparafucile) e Anastasia Boldyreva (Maddalena) sono una perfetta coppia drammatica nella scena della tempesta. Rocco Cavalluzzi rende bene il carattere di Monterone, un mozartiano Commendatore a cui manca ogni componente ultraterrena, che si rivela inerme anziché vendicatore. Anche gli altri cantanti (Francesco Musino: Ceprano; Rinako Hara: Contessa di Ceprano; Dario Giorgelé: Marullo; Kimika Yamagiwa: Giovanna; Dario Sebastiano Pometti: Borsa; Damiano Locatelli: usciere) sono stati all’altezza dei loro ruoli.

Applausi calorosi dal pubblico.
[Rappresentazione vista: 8/5/2022]