Il secondo figlio di Dio

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Simone Cristicchi interpreta David Lazzaretti, predicatore visionario della seconda metà dell’Ottocento

di Adriana Medeot

Di Simone Cristicchi attrae non solo l’indubbio e poliedrico talento, ma anche l’entusiasmo e la cura con cui ama affrontare argomenti poco trattati o bistrattati, rimossi dalla memoria collettiva. Nei suoi più recenti lavori teatrali – Magazzino 18 e prima ancora Centro d’igiene mentale – ha messo in scena vicende recenti, realmente accadute ma scomode, che sono state perciò poste in disparte se non cancellate dalla Storia ufficiale; ha raccontato storie di sopraffazioni e di vittime, scevro da zavorre ideologiche, storie dolorosamente umane, come questa, di Davide Lazzaretti, il Cristo dell’Amiata, una storia che “ …se non te la raccontano non la sai…”.

Il secondo figlio di Dio narra la vita di un uomo singolare e stupefacente, David Lazzaretti, carrettiere, meglio barrocciaio, di umilissime origini, nato ad Arcidosso, sulle pendici del Monte Amiata, nel 1834. Nelle campagne toscane ai piedi del vulcano addormentato, lo spirito di questo profeta sovversivo e anarchico aleggia ancora, tanto che Manfredi Rutelli, abitando quei luoghi, ne ha tratto un primo testo drammaturgico, che ha incuriosito Cristicchi e l’ha indotto ad approfondire il ritratto del personaggio, arricchendo l’impianto originale di ulteriori informazioni, testimonianze, aneddoti. Così è nato questo lungo e impegnativo monologo che, ripercorrendo la vita del Lazzaretti, s’interroga sulla sua parabola umana. Chi fu? Un visionario? Un proto-comunista? Un mistico paranoico con caratteristiche di pericolosità sociale, come sentenziò Lombroso analizzandone il cranio post- mortem?

Fu di certo un uomo d’ingegno, d’immaginazione e di carisma eccezionali: autodidatta, scrisse parecchi libri di impronta millenarista e si autoproclamò nuovo messia, nonché discendente dai re taumaturghi di Francia, Re dei re, Unto del Signore. Nel frattempo si sposò, fece figli, condusse una vita scapestrata che si alternava a rivelazioni febbricitanti e, nonostante la sua proterva insistenza, non fu mai ricevuto dal Papa, che al tempo era Pio IX e il tempo era il 1869, ossia un anno prima della presa di Porta Pia e della fine del potere temporale della Chiesa.

Dopo l’ennesimo rifiuto da parte del pontefice di ascoltare la sua storia e le sue ragioni, David si ritirò nell’eremo di sant’Angelo, nei pressi di Montorio Romano, luogo in cui, tra visioni e premonizioni, maturò il nuovo ordine da dare al suo credo e alla sua opera. Coniugando felicemente spirito e materia, si diede subito da fare: tra il 1870 e il 1878, fondò sul Monte Labbro una comunità fondata sull’uguaglianza, la solidarietà e l’istruzione. Furono in centinaia a seguirlo e a mettere tutto in comune: la terra, gli attrezzi, il lavoro, l’impegno. Realizzò, per il poco tempo che gli fu concesso, un’utopia sociale in cui il vero capitale non era costituito dal denaro ma dall’uomo. L’uomo che pensa, che lavora, che sente: l’uomo, vero frammento del divino.

Lazzaretti si proponeva come il nuovo profeta, portatore di speranza nella campagna grossetana della seconda metà dell’Ottocento, territorio fortemente depresso, che non riusciva a vedere nell’appena insediato Stato italiano alcuna speranza di cambiamento. Seppe interpretare il desiderio di futuro insito in ogni uomo e seppe dargli spazio, incentivarlo. Sul monte Labbro giunsero in tanti per lavorare la terra, per mettere in comune i pochi averi guadagnati con fatica, per crescere ed educare i figli con una prospettiva. David era l’uomo nuovo, proponeva una visione positiva del futuro: come non accoglierla?

La Chiesa usò in un primo momento il suo carisma d’impronta cristiana per arginare il nascente potere dello Stato italiano che ne stava confinando l’azione. Non riuscendo poi a contenere la portata del fenomeno, lo processò, lo scomunicò e mise all’indice i suoi scritti. Lo Stato lo condannò a sua volta quale agitatore di masse, rivoluzionario e in odore di socialismo; lo ammazzò la mattina del 18 agosto 1878, mentre guidava una processione pacifica. Aveva preannunciato data e ora della sua morte. Non fu la sola vittima: tre furono i morti e quaranta i feriti.

Simone Cristicchi, in scena, risulta un ragazzone alto e robusto, dal volto adombrato da un cospicuo e tormentato garbuglio di capelli – un cespuglio – con cui ha spesso a che fare. Recita con passione, ma è troppo intento a spostare a destra e a manca l’enorme carro di legno che torreggia sul palcoscenico e che costituisce la scenografia. Se lui è il protagonista, il carro è di certo l’antagonista.

La trovata del novello carro di Tespi non è – ovviamente – né malvagia né inconsueta: le multiformi funzioni di volta in volta si manifestano e l’oggetto viene trasformato in altare, in grotta, in chiesa, tutto ciò però con grande sforzo e impaccio e talvolta con l’apprensione del pubblico. Simone, che nel frattempo recita, corre di qua e di là per far funzionare il marchingegno, fa fatica, e lo si capisce.

Insomma, testo interessante, ottima operazione, buona la performance di Simone Cristicchi, che convince per entusiasmo e passione. Non tutto è perfetto, ma va bene così…