Il Sessantotto alla Bocconi

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Si aveva la sensazione che stesse per avvenire qualcosa di nuovo, una “rottura” idealistica di vastissima portata

di Renzo Crivelli*

 

Nelle ultime fasi della campagna elettorale terminata lo scorso 4 marzo abbiamo assistito a inquietanti episodi di contrapposizione fra opposti estremismi che ci fanno pensare ad una stagione come quella sessantottina che sembrava ormai relegata ai libri di storia. In effetti le affinità non sono molte, anche se il clima di accesa contestazione segue pur sempre rituali simili. Certo, tra il cosiddetto ’68 e gli incidenti attuali, si è frapposto il fenomeno ancor più tragico degli Anni di piombo, ma il tempo delle riflessioni, non proprio quello delle commemorazioni, aiuta a fare paralleli e a ricordare (la storia prima di tutto) cause ed effetti di quello che, mezzo secolo fa, ha costituito la prima forma di rivendicazione giovanile della neo-nata Repubblica.

In quegli anni, a cominciare dal maggio ’68 (il maggio parigino che in Italia arriva molto più lentamente), un fenomeno di autocoscienza delle masse giovanili aveva fatto breccia in una situazione contestativa che aveva già investito le scuole medie superiori almeno due/tre anni prima. In assenza di organi di autogestione (o per lo meno di condivisione) della vita scolastica, erano infatti sorti i primi Organismi rappresentativi, costituiti da studenti in funzione di portavoce con le istituzioni (Presidi essenzialmente, non essendoci nemmeno assemblee di genitori), i quali avevano cominciato ad aprire un dialogo – spesso subito conflittuale – con le controparti (presidenze e provveditorati scolastici). E questa fitta dialettica, sempre osteggiata dalle istituzioni, era presto degenerata in gruppi di opposizione e di resistenza.

In università il fenomeno era stato più spontaneo e autonomo. Anche se improvviso e dilagante. In quegli anni io ero studente universitario iscritto in un Ateneo molto cruciale, l’Università Bocconi, tempio del capitale e della Confindustria milanese. A quei tempi la Bocconi era ripartita in due settori assai diversi, uno tecnico-economico ed uno umanistico: Facoltà di economia e commercio e Facoltà di Lingue e letterature straniere. Interessante questo doppio binario, in una delle maggiori università commerciali italiane. Voluto da una Confindustria post-bellica sfrondata da molta zavorra legata al precedente regime, la Facoltà di Lingue e letterature straniere doveva assolvere a due compiti importanti. In prima battuta doveva essere un veicolo di studi linguistici rivolti ad un’Europa uscita dalla guerra con una ferma volontà di unione. Durante il fascismo, infatti, non era molto amato lo studio delle lingue, forse a parte quella tedesca, e non certo quella inglese (la perfida Albione) e americana (quasi nessun grande autore d’oltre oceano era mai tradotto in italiano). Pertanto questo tipo di apertura nel settore della condivisione culturale (e commerciale, ovviamente) era ben visto da Confindustria. In seconda battuta, poi, doveva rappresentare un’innegabile affermazione dei principi affratellanti della letteratura, in una prospettiva che guardava alla Comunità europea.

Confindustria per un ventennio aveva coltivato questo equilibrio lungimirante, fornendo alla Bocconi anche una tra le più aggiornate Biblioteche di letterature straniere d’Italia. E contemporaneamente aveva investito su una duplice tipologia di studenti in una sorta di “incontrollato” interclassismo. Da una parte i nuovi “colletti bianchi” e dall’altra i nuovi umanisti, fatalmente divisi dal loro censo di estrazione. Figli di famiglie benestanti da un lato e figli di famiglie piccolo-borghesi dall’altro lato (teniamo sempre conto che il livello delle tasse universitarie non permetteva un accesso indiscriminato al proletariato, che si riversava sull’Università Statale di via Festa del Perdono). Una convivenza che aveva “tenuto” per due decenni, senza grandi scompensi. Almeno fino al 1968…

Con l’arrivo della contestazione studentesca, infatti, cominciarono le prime contrapposizioni anche all’interno della Bocconi. E si andarono delineando due filoni destinati a conflagrare. Era evidente che i “colletti bianchi”, provenienti da famiglie borghesi medio-alte (per cui le tasse universitarie elevate erano un problema inesistente) non avevano nessun interesse a tentare di infrangere un sistema a loro perfettamente funzionale, quello stesso sistema che per loro era di riferimento: laureati con ottimi voti, venivano immediatamente cercati dalle industrie e dalle banche, che regolarmente inviavano, sin dal giorno dopo il conseguimento della laurea, richieste di curricula promettenti.

A dire il vero, questo avveniva, ma molto meno ovviamente, anche per i laureati in Lingue e letterature straniere, dato che c’era bisogno di corrispondenti esteri, di persone culturalmente abilitate ad entrare negli ambienti economici europei e americani “conoscendo” il loro sostrato culturale. In ogni caso, nel settore umanistico, non tutti erano vocati a usare una laurea umanistica nel commercio, mentre invece la maggioranza degli studenti intendeva entrare nel mondo della scuola o in quello delle istituzioni statali. Due livelli in cui il loro sapere e la loro impostazione ideologica avrebbero contato, contribuendo a modificare uno status ideologico che si era conservato ben oltre un’Italia post-bellica che non aveva fatto i conti con la storia.

E qui s’inserì la ribellione del ’68 come un cuneo micidiale. I cambiamenti della contestazione giovanile si infiltrarono repentinamente anche nella Bocconi. Nel senso che la rivolta partì dall’Università Statale e subito dilagò nel cuore del mondo economico nazionale, nell’Università cosiddetta di élite. Tra il ’68 e il ’69 Milano divenne letteralmente un campo di battaglia. Ricordo che non era rassicurante circolare nell’area tra via Festa del perdono e corso Europa, una “zona franca” molto animata da presenze incerte, a volte anche inquietanti. Da lì il riverbero nell’altra area intorno a via Bligny e via Sarfatti (area della Bocconi) fu quasi automatico, nel senso che gli studenti rivoluzionari si volsero quasi automaticamente verso la Bocconi, sede deputata del Capitale e dei servi del capitale.

Erano mesi difficili, in cui le lezioni erano sospese in continuazione da collettivi autoproclamatisi tali, e tutto regolarmente finiva in assemblee-fiume, in cui si parlava di tutto e di nulla, ma in cui si respiravano due emozioni: la percezione che si stesse facendo fare un nuovo passo alla Storia (ferma dalla Resistenza) e quella che la classe giovanile potesse finalmente avere un suo spazio, potesse dire la sua, anzi “urlare” la sua opinione. E anche si respiravano due paure: la sensazione che gli spazi della libera espressione si fossero ristretti e che il dissenso fosse diventato il padre di una violenza esplicita (fino ad arrivare all’intimidazione). Mi ricordo che quelle (poche) volte che lasciavo la Bocconi per raggiungere amici alla Statale, incamminandomi verso il centro, avevo sempre un senso di timore. Non sapevo, in effetti, chi stavo incontrando, avendo l’impressione che prima di tutto sarebbe stato meglio non dare nell’occhio. Un solo esempio: la precarietà della delazione (quella stessa che aveva funestato la guerra civile italiana) mi inquietava non poco. Circolavano a quel tempo vere e proprie bande di segno opposto, che si auto-proteggevano in gruppi, e che andavano a caccia di avversari politici. Ricordo i fascisti, finalmente muniti di spazi operativi dopo la caduta del regime dittatoriale, anche se costretti a guerriglie tattiche essendo in numero minore, che pattugliavano zone precise del centro cittadino; e ricordo rivoluzionari comunisti organizzati alla “caccia al fascista” con tattiche di guerriglia militare.

Un pomeriggio, per fare un esempio, ero in zona Statale quando, improvvisamente ho sentito un gruppo di persone con caschi urlare “quello è un fascista!” e li ho visti gettarsi a un inseguimento punitivo a suon di sprangate. “Quelli sono i Katanga”, mi disse un compagno che si era ritratto impaurito in un portone. “Sai… a volte sbagliano persona”. Oppure ho assistito a una spedizione punitiva dei fascisti, incistati in alcune zone strategiche all’interno del Chiostro della Statale, che stavano là come fa il ragno in attesa che la preda cada nella sua rete.

E in Bocconi? Beh, non era proprio così. C’era uno zoccolo duro di “colletti bianchi” che arginava molte velleità, magari solo come forza oppositiva fisica neutrale. Ma la Facoltà di Lingue e letterature straniere, in gran parte deflagrò. “Noi non saremo più funzionali al capitale” dicevano. “Nessuno più ci classificherà con un giudizio e un voto, nessuno che appartenga alla casta dei padroni, nessun professore servo dei padroni”. Certo molti dei professori umanisti della Bocconi erano in realtà incardinati alla Statale (doppio stipendio), ma là si facevano vedere poco, a meno di sostenere completamente la rivoluzione. Ce ne furono molti che aderirono, acconsentendo al voto politico (diciotto a tutti) per convinzione oppure per quieto vivere.

È un fatto che la rivolta, in Bocconi, abbia quasi esclusivamente riguardato la Facoltà di lingue e letterature straniere. Tant’è vero che, già alla fine di maggio del ’68, ne veniva decretata l’occupazione sine die. Ad appoggiare (e anche a stimolare) questa occupazione furono gli assistenti (meglio dire lettori) di lingue (molti di loro stranieri) i quali, all’interno del corpo accademico, capeggiarono la rivolta contro molti dei cattedratici. Ovviamente l’occupazione fu imposta anche alla Facoltà di economia e commercio, con blocchi di studenti rivoluzionari che impedirono l’accesso. A nulla valse il tentativo di mediazione – invero intelligente – del rettore Giordano Dell’amore, e neppure venne accettato il piano “moderato” di revisioni dell’ordinamento didattico patrocinato dal direttore amministrativo Lorenzo Gasparini. Revisione che avrebbe dovuto riguardare anche taluni programmi di Economia e commercio (punto ancor più cruciale, questo). La Bocconi rimase occupata a oltranza, e collassò.

All’interno mi ricordo bene il fiume di assemblee, di discussioni, di discorsi toccanti ma spesso strampalati, di ukase politici. L’atmosfera era quella di una tempesta di idee politiche affascinanti e allo stesso tempo confuse. Si aveva la sensazione che stesse per avvenire qualcosa di nuovo, una “rottura” idealistica di vastissima portata, ma “dall’interno” era anche presente la paura (quale rivoluzione non ci impaurisce?). Avevo anche provato a partecipare ad alcune di queste assemblee molto urlate. La prima volta parlai da moderato e mi fu tolto il microfono. La seconda volta fui apostrofato come un “fottuto democristiano” (io che non lo ero mai stato) e spintonato giù dalla cattedra dell’aula, caddi e qualcuno mi raccolse pietosamente. Imparai cosa vuol dire fascismo di destra e di sinistra (ma allora non avevo le idee ancora chiare). Nella lotta, che era dura specie per l’apporto dei colleghi della Statale più esagitati che venivano in Bocconi, ci furono molte intemperanze. Velocemente il discorso sulle trasformazioni istituzionale della Bocconi si affievolì per lasciare spazio ai grandi slogan del ’68: dalla Cina al Vietnam, dalla Cuba comunista al Black Power in America.

Ma tutto finì male nel giro di pochi mesi. Il conte Furio Cicogna, espressione della proprietà confindustriale della Bocconi, reagì duramente alla richiesta di dimissioni del rettore Dell’Amore (che pure tentava, come si è detto, una composizione delle parti) e comunicò ufficialmente in una lettera del 12 luglio 1968 che la Facoltà di lingue e letterature straniere era virtualmente chiusa. Trasmise anche il testo a Giovanni Spadolini, allora direttore del Corriere della sera. Ma il giornale ignorò la notizia. Un patrimonio culturale immenso moriva e il Paese se ne fregava allegramente.

 

* Renzo Crivelli è professore emerito di Lingua e letteratura inglese all’Università di Trieste